Sono scorsi
fiumi di inchiostro, per opera di autorevolissimi studiosi, nel tentativo di
descrivere e comprendere un fenomeno così complesso come quello del tifo
calcistico.
Si è pertanto parlato di senso di comunità, di rito laico di massa, di appartenenza,
di aspirazione ad un ideale, di comunanza gergale; probabilmente tutto ciò, ma
anche altro: siamo al cospetto di un sentimento, in quanto tale, difficilmente
racchiudibile in categorie concettuali.
Sul tema, una particolare menzione, fra tutti, merita il film cult di
Nick Hornby “Febbre a 90°” -peraltro tratto dal suo libro omonimo- che analizza
gli aspetti sociologici del tifo calcistico.
E’ un fedele ritratto psicologico di coloro che ogni fine settimana
soffrono e gioiscono per le sorti della propria squadra, cui fanno da
contraltare i “benpensanti”, i non appassionati, con le loro ragionevoli remore
e gli opportuni distinguo.
Per non tacer del sociologo
irlandese, Benedict Anderson che, nell’occuparsi della formazione delle
ideologie nazionalistiche, ha teorizzato l’esistenza di una “Comunità immaginata”, fondata, non già
su una relazione personale diretta tra i suoi membri, ma solo sulla percezione di essere parte di una
comunità di affini, affinità che può essere la stessa lingua, una religione
uguale oppure un senso comune del destino che associa gli individui.
Proprio a proposito del destino, è convinzione diffusa che non sia il
tifoso a decidere la squadra del cuore, bensì quest’ultima –fatalmente- a
sceglierlo, certa che giammai vivrà l’esperienza dell’abbandono, atteso che una
persona può cambiare orientamento politico, o addirittura religioso,
professione, condizione economica, gusti e stili di vita, ma non l’appartenenza
alla squadra del cuore.
A dirla con le parole di Anderson, quindi, le tifoserie calcistiche, al
pari di una “comunità immaginata”,
cementano la loro unione, prescindendo dalla conoscenza diretta, in un flusso
di percezioni e di passione comune, che si trasforma in appartenenza.
E tale connotazione è parte essenziale nell'animo di un tifoso, che la porta
con sè tutti i giorni della propria vita, anche oltre, ed in ogni circostanza.
La storia del sig. Vicente Navarro Aparicio, nato a Valencia nel 1928 si inserisce a pieno titolo nel solco di quella comune
percezione che genera connessione tra persone.
Il sig. Vicente, operaio, cieco da un occhio dalla nascita, perse
completamente la vista all’età di 54 anni, nel 1985, senza tuttavia che ciò
potesse impedirgli di seguire la sua squadra del cuore, il Valencia, allo
stadio Mestalla, decidendo di mantenere il suo abbonamento ogni stagione.
Quando divenne completamente
cieco decise solo di cambiare posizione sugli spalti: dal Settore 16, più
lontano, passò alla Tribuna Centrale, per essere più vicino al prato e “sentire” meglio la gara, "percepire
il Valencia" ("sentir"
in spagnolo).
Fila numero 15, posto 164; dal
quel posto continuò a seguire la partita con suo figlio, che gli raccontava
quello che succedeva in campo, fino
alla sua morte avvenuta nel 2016. Era il socio numero 18 per anzianità del
Valencia ed era conosciuto da tutta la comunità di tifosi Blanquinegres.
Dal marzo del 2019 il suo seggiolino è occupato per sempre: il Valencia, nell’anno del centenario, ha
deciso di rendere omaggio a lui, ai non vedenti e soprattutto alla
passione dei tifosi. Al posto 164 della fila 15 della tribuna centrale si erge
infatti una scultura in bronzo nella
postura di un uomo con bastone mentre guarda la partita.
Il club ha voluto dedicare al suo tifoso questa frase: “Vincent rappresenta la forma più pura
dell'essere Valencianisti”.
Una passione pura, trasparente ed immateriale.

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