C’era una volta un uomo che ululava nei boschi.
E c’era, da un’altra parte del mondo, una giovane artista che urlava in silenzio attraverso il colore.
Non erano leggende. Non erano folli.
Erano Antonio Ligabue e Panteha Abareshi
– creature ferite, spiriti vibranti, che hanno trasformato il tormento in arte.
Diversi per tempo e spazio, uniti dalla stessa urgenza: comunicare il dolore,
renderlo visibile, trasformarlo in gesto.
Ligabue lo incontravi tra le golene del Po,
con un gallo sulla spalla e il volto contratto in smorfie da lupo.
Panteha invece la scopri in un breve video,
immobile ma viva, con le mani che raccontano attraverso la tela l’esperienza
della malattia cronica. Due vite diverse, ma una stessa battaglia: lottare per non
essere invisibili.
Antonio, nato nel 1899 a Zurigo, si portava
addosso un’esistenza straziata: l’abbandono, l’internamento, l’espulsione come
“straniero indesiderato”. Dormiva sotto i ponti, ma dipingeva. Ululava, ma
creava. Cercava sé stesso, ritraendosi ora come uomo, ora come belva, in una
metamorfosi continua e ossessiva.
Panteha, nata un secolo dopo, vive il
proprio corpo come campo di battaglia. La sua arte nasce dal dolore fisico, ma
non si ferma lì. È rabbia che si trasforma in linguaggio visivo, vulnerabilità
che diventa espressione radicale. Anche lei, come Ligabue, non dipinge per
piacere, ma per sopravvivere.
Ligabue era ossessionato da Van Gogh.
Panteha dichiara che il suo corpo è il suo materiale. Entrambi trasformano ciò
che la società vorrebbe nascondere – la malattia mentale, la disabilità,
l’esclusione – in un grido creativo. Leoni con occhi umani, autoritratti
ferini, paesaggi sospesi nel tempo da un lato; tessuti cuciti, performance
visive, gesti lenti e carichi di significato dall’altro.
Non è estetica, è testimonianza.
L’arte diventa così lingua universale del
dolore. Ligabue ululava per comunicare con chi non parlava la sua lingua.
Panteha dipinge per chi non può vedere dentro di lei. Entrambi invocano uno
sguardo, una presenza, un incontro.
Nelle loro opere c’è una domanda implicita:
“Mi vedi davvero?”
Oggi Ligabue ha un museo a Gualtieri e la
sua fama è consolidata. Le sue tigri ruggiscono ancora nei musei.
Anche Panteha è stata accolta da gallerie
internazionali, ma la sua voce è quella di un’urgenza attuale: quella di chi
vive nel margine e chiede ascolto.
In fondo, entrambi ci ricordano che l’arte
è connessione primordiale. Che si può gridare anche senza voce. Che un
pennello, una tela, un colore possono diventare ululati tra gli uomini.
E chi ha occhi, ascolti.

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