Si racconta che l'imperatore Huizong della dinastia Song fosse un calligrafo così raffinato da inventare un proprio stile di scrittura, lo Shou Jin Ti, “il carattere dell’oro sottile”. Ogni tratto, ogni curvatura del pennello, ogni respiro dell’inchiostro aveva per lui un significato che andava ben oltre il contenuto delle parole. Era la danza del pensiero, il battito del cuore sulla carta.
La calligrafia è questo.
Non una decorazione, non un vezzo, ma una
forma di presenza, di affermazione silenziosa dell’esistenza.
Scrivere a mano non è solo lasciare un
messaggio: è lasciare una parte viva di sé.
È come se la mano sapesse fare da tramite
tra qualcosa che ci abita e il mondo esterno, tracciando sentieri invisibili
tra l'interno e l'altro.
È una delle prime cose che impariamo da
bambini. Prima ancora di sapere “cosa” scrivere, ci insegnano a tracciare, come
a prendere le misure del mondo. E da allora, ogni persona sviluppa una propria
impronta, come una calligrafia dell’anima: lettere spigolose o morbide,
slanciate o timide, ordinate o in disordine come certi pensieri di notte.
Nessuna scrittura è neutra.
Non sorprende, allora, che alcune parole
scritte a mano sappiano commuovere anche se dicono poco. Che un biglietto
trovato in un cassetto possa parlarci più di mille email; sono frammenti di
presenza, testimonianze di un’emozione che, pur non essendo più lì, ha lasciato
il segno.
Scrivere a mano è un atto di ascolto. Il
tempo rallenta, la mente si fa più chiara, la mano diventa guida tra emozioni
confuse e ricordi che non vogliono svanire. Ogni parola tracciata è un varco,
un passaggio segreto verso una verità che spesso nemmeno conosciamo finché non
l’abbiamo scritta.
E non serve essere calligrafi. Anche chi
scrive in stampatello maiuscolo o con grafie imprecise lascia una firma
esistenziale. Perché la mano non mente. Se è tesa, si vede. Se è serena, si
sente. Se è stanca, rallenta. Scrivere a mano è una delle poche cose che,
ancora oggi, non può essere davvero simulata.
E forse è proprio in questa fragilità che
la scrittura a mano diventa potente: nella sbavatura d’inchiostro,
nell’imperfezione del tratto, nell’incertezza di una parola cancellata. È come
guardare negli occhi qualcuno che ha abbassato le difese. Nessun font, per
quanto elegante, potrà mai restituire la stessa verità.
Nel film Il favoloso mondo di Amélie,
c’è una scena in cui la protagonista scrive messaggi segreti a mano, con cura
quasi infantile, e li lascia nei luoghi più impensati. Biglietti infilati sotto
una tazza, tra le pagine di un libro, in una tasca dimenticata. Sono gesti
minimi, ma carichi di poesia. Lei non sa chi li troverà, né quando, né se mai
succederà. Eppure continua. Perché la bellezza del messaggio non sta nella
certezza che venga letto, ma nel fatto che esista. È la traccia della sua
presenza, il suo modo di dire: “io vedo, io sento, io ci sono”.
Ecco cosa rende la calligrafia così unica:
l’intimità di un gesto che non ha bisogno di pubblico.
Scrivere a mano è un atto d’amore anche quando nessuno lo saprà.
Allora, ogni volta che scriviamo qualcosa —
che sia una poesia, una lettera, una dedica o anche solo una lista della spesa
— vale la pena metterci dentro un piccolo gesto d’amore. Perché non possiamo
sapere chi la troverà.
Non possiamo sapere quale connessione potrà
nascere.
E in fondo, è questo che conta: quel legame
misterioso, sottile, talvolta inspiegabile, che ci unisce.
E che a volte… basta un tratto d’inchiostro
per rivelare.

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