29.5.25

Legati da un’eco

 


Nelle città, tra un semaforo e una finestra accesa, circolano storie che nessuno ha mai davvero confermato, ma che tutti conoscono. Le chiamano leggende metropolitane, come se fossero fiabe moderne per anime cresciute troppo in fretta. Ma a ben guardare, non sono favole. Sono verità non documentate. Eppure, così testarde da non scomparire.

Sono le storie che qualcuno ha sentito raccontare da un amico, “che conosceva uno che c’era”. Quelle che si sussurrano nelle notti d’autunno, o che ritornano a galla quando ci si perde tra i rumori di una città in dormiveglia.

A Roma, c’è chi giura di aver visto l’anima del Marchese del Grillo salire i gradini di Palazzo Madama, ridendo ancora delle sue beffe. A Milano, nei sottopassi della stazione Centrale, si racconta di un uomo in impermeabile che offre ai passanti un biglietto del treno verso una città che non esiste più.

Ci sono anche storie più recenti, nate negli anni delle autostrade e degli ascensori, delle periferie e dei centri commerciali. La ragazza in abito bianco che chiede un passaggio e poi sparisce all’improvviso sul sedile posteriore. Il bambino che svanisce nel nulla mentre la madre compra il latte, e che si dice venga trovato, anni dopo, a pochi isolati da lì. Il killer nascosto nel sedile posteriore dell’auto, svelato solo dal riflesso negli specchietti.

E ancora: i topi giganti nelle fogne, i cani tosati e rivenduti come leoni da circo. Storie che cambiano luogo ma non forma, si adattano alla città come un profumo dimenticato nei portoni, tornano a bussare quando meno te lo aspetti.

Queste leggende non nascono per caso. Non vengono da lontano, ma da sotto. Dal fondo dei marciapiedi, dai muri scrostati, dalle finestre chiuse con cura. Sono memorie non registrate, racconti che nessuno ha mai scritto ma che si passano di voce in voce, come biglietti piegati e infilati tra le dita.

Spesso sono solo un nome, un gesto, un dettaglio che ritorna: una mano guantata, un uomo che si siede sempre allo stesso tavolo e parla con qualcuno che non c’è, una donna che sorride in metropolitana e poi svanisce alla stazione sbagliata.

E allora ti chiedi: è successo davvero?

Ma forse è la domanda sbagliata.

Perché le leggende urbane non chiedono di essere credute, chiedono solo di essere ascoltate. 

Esistono perché parlano di qualcosa che tutti abbiamo sentito almeno una volta: l’eco di un incontro sfiorato, l’intuizione che ci sia qualcosa oltre quello che vediamo. 

Una connessione invisibile, un passaggio tra chi siamo e chi avremmo potuto essere. Tra chi abbiamo perso, e chi forse non ha mai smesso di cercarci.

Sono storie che resistono al tempo perché non hanno bisogno di prova, solo di presenza.

E come certi amori non vissuti, restano veri proprio perché non sono accaduti del tutto. 



15.5.25

L’anima sulla carta


Si racconta che l'imperatore Huizong della dinastia Song fosse un calligrafo così raffinato da inventare un proprio stile di scrittura, lo Shou Jin Ti, “il carattere dell’oro sottile”. Ogni tratto, ogni curvatura del pennello, ogni respiro dell’inchiostro aveva per lui un significato che andava ben oltre il contenuto delle parole. Era la danza del pensiero, il battito del cuore sulla carta.

La calligrafia è questo.

Non una decorazione, non un vezzo, ma una forma di presenza, di affermazione silenziosa dell’esistenza.

Scrivere a mano non è solo lasciare un messaggio: è lasciare una parte viva di sé.

È come se la mano sapesse fare da tramite tra qualcosa che ci abita e il mondo esterno, tracciando sentieri invisibili tra l'interno e l'altro.

È una delle prime cose che impariamo da bambini. Prima ancora di sapere “cosa” scrivere, ci insegnano a tracciare, come a prendere le misure del mondo. E da allora, ogni persona sviluppa una propria impronta, come una calligrafia dell’anima: lettere spigolose o morbide, slanciate o timide, ordinate o in disordine come certi pensieri di notte.

Nessuna scrittura è neutra.

Non sorprende, allora, che alcune parole scritte a mano sappiano commuovere anche se dicono poco. Che un biglietto trovato in un cassetto possa parlarci più di mille email; sono frammenti di presenza, testimonianze di un’emozione che, pur non essendo più lì, ha lasciato il segno.

Scrivere a mano è un atto di ascolto. Il tempo rallenta, la mente si fa più chiara, la mano diventa guida tra emozioni confuse e ricordi che non vogliono svanire. Ogni parola tracciata è un varco, un passaggio segreto verso una verità che spesso nemmeno conosciamo finché non l’abbiamo scritta.

E non serve essere calligrafi. Anche chi scrive in stampatello maiuscolo o con grafie imprecise lascia una firma esistenziale. Perché la mano non mente. Se è tesa, si vede. Se è serena, si sente. Se è stanca, rallenta. Scrivere a mano è una delle poche cose che, ancora oggi, non può essere davvero simulata.

E forse è proprio in questa fragilità che la scrittura a mano diventa potente: nella sbavatura d’inchiostro, nell’imperfezione del tratto, nell’incertezza di una parola cancellata. È come guardare negli occhi qualcuno che ha abbassato le difese. Nessun font, per quanto elegante, potrà mai restituire la stessa verità.

Nel film Il favoloso mondo di Amélie, c’è una scena in cui la protagonista scrive messaggi segreti a mano, con cura quasi infantile, e li lascia nei luoghi più impensati. Biglietti infilati sotto una tazza, tra le pagine di un libro, in una tasca dimenticata. Sono gesti minimi, ma carichi di poesia. Lei non sa chi li troverà, né quando, né se mai succederà. Eppure continua. Perché la bellezza del messaggio non sta nella certezza che venga letto, ma nel fatto che esista. È la traccia della sua presenza, il suo modo di dire: “io vedo, io sento, io ci sono”.

Ecco cosa rende la calligrafia così unica: l’intimità di un gesto che non ha bisogno di pubblico.

Scrivere a mano è un atto d’amore anche quando nessuno lo saprà.

Allora, ogni volta che scriviamo qualcosa — che sia una poesia, una lettera, una dedica o anche solo una lista della spesa — vale la pena metterci dentro un piccolo gesto d’amore. Perché non possiamo sapere chi la troverà.

Non possiamo sapere quale connessione potrà nascere.

E in fondo, è questo che conta: quel legame misterioso, sottile, talvolta inspiegabile, che ci unisce.

E che a volte… basta un tratto d’inchiostro per rivelare.

1.5.25

Ululati tra gli uomini

C’era una volta un uomo che ululava nei boschi.

E c’era, da un’altra parte del mondo, una giovane artista che urlava in silenzio attraverso il colore.

Non erano leggende. Non erano folli.

Erano Antonio Ligabue e Panteha Abareshi – creature ferite, spiriti vibranti, che hanno trasformato il tormento in arte. Diversi per tempo e spazio, uniti dalla stessa urgenza: comunicare il dolore, renderlo visibile, trasformarlo in gesto.

Ligabue lo incontravi tra le golene del Po, con un gallo sulla spalla e il volto contratto in smorfie da lupo.

Panteha invece la scopri in un breve video, immobile ma viva, con le mani che raccontano attraverso la tela l’esperienza della malattia cronica. Due vite diverse, ma una stessa battaglia: lottare per non essere invisibili.

Antonio, nato nel 1899 a Zurigo, si portava addosso un’esistenza straziata: l’abbandono, l’internamento, l’espulsione come “straniero indesiderato”. Dormiva sotto i ponti, ma dipingeva. Ululava, ma creava. Cercava sé stesso, ritraendosi ora come uomo, ora come belva, in una metamorfosi continua e ossessiva.

Panteha, nata un secolo dopo, vive il proprio corpo come campo di battaglia. La sua arte nasce dal dolore fisico, ma non si ferma lì. È rabbia che si trasforma in linguaggio visivo, vulnerabilità che diventa espressione radicale. Anche lei, come Ligabue, non dipinge per piacere, ma per sopravvivere.

Ligabue era ossessionato da Van Gogh. Panteha dichiara che il suo corpo è il suo materiale. Entrambi trasformano ciò che la società vorrebbe nascondere – la malattia mentale, la disabilità, l’esclusione – in un grido creativo. Leoni con occhi umani, autoritratti ferini, paesaggi sospesi nel tempo da un lato; tessuti cuciti, performance visive, gesti lenti e carichi di significato dall’altro.

Non è estetica, è testimonianza.

L’arte diventa così lingua universale del dolore. Ligabue ululava per comunicare con chi non parlava la sua lingua. Panteha dipinge per chi non può vedere dentro di lei. Entrambi invocano uno sguardo, una presenza, un incontro.

Nelle loro opere c’è una domanda implicita: “Mi vedi davvero?”

Oggi Ligabue ha un museo a Gualtieri e la sua fama è consolidata. Le sue tigri ruggiscono ancora nei musei.

Anche Panteha è stata accolta da gallerie internazionali, ma la sua voce è quella di un’urgenza attuale: quella di chi vive nel margine e chiede ascolto.

In fondo, entrambi ci ricordano che l’arte è connessione primordiale. Che si può gridare anche senza voce. Che un pennello, una tela, un colore possono diventare ululati tra gli uomini.

E chi ha occhi, ascolti.