Si tratta
della formula di chiusura all’epistola XLVII di Antonio Gramsci, da lui redatta
nel carcere di Turi il 1 luglio 1929 ed indirizzata alla cognata Tanija
Schucht.
Ne abbiamo testimonianza grazie alla raccolta postuma, più nota come “Lettere dal carcere”, che comprende la
gran parte della corrispondenza che Gramsci intrattenne con familiari ed amici
nel corso della sua detenzione, dal 1926 al 1934.
Corrispondenza, ovviamente, soggetta a rigidi controlli censori, dal
momento che erano interdetti temi politici, così come era contingentata la sua
cadenza nel tempo.
Tali macroscopiche limitazioni, espressione di quel regime carcerario, al
limite del disumano, anziché fiaccare le sue forze, contribuiscono a disegnare
una curiosa, quanto prodigiosa, parabola.
Un argomento del tutto ordinario (“ho
ricevuto finalmente le famose sopracalze beduine, col resto: vanno benissimo,
sembrano proprio inventate apposta per il mio bisogno”) è quindi funzionale
a riflessioni su evidenze ben più tristi: l’atonia psichica che affligge i
carcerati al terzo anno di detenzione (….al
terzo anno, la massa di stimoli latenti che ognuno porta con sé dalla libertà e
dalla vita attiva, comincia ad estinguersi e rimane quel barlume di volontà che
si esaurisce nelle fantasticherie dei piani grandiosi mai realizzati: il
carcerato si sdraia supino nella branda e passa il tempo a sputare contro il
soffitto sognando cose irrealizzabili. Questo io non lo farò certamente, perché
non sputo quasi mai e anche perché il soffitto è troppo alto!).
E proprio a questo punto, si compie una metamorfosi comunicativa; lo
sfortunato protagonista, ben lungi dal cedere a facili ed umane derive
psicologiche, concentra tutta la sua attenzione sulla vita e lo sviluppo di una
piantina di rose presente nel cortile del carcere, trasfondendovisi, e
proiettando tutto sé stesso, le sue sensazioni e le sue speranze (“la rosa è viva e fiorirà certamente, perché
il caldo prepara il gelo e sotto la neve palpitano già le prime violette”),
al di là della materialità contingente cui era costretto, manifestando, quindi,
la sua umanità in una forma del tutto diversa (“il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non
esiste più per me”).
Una “divagazione” -la sua- che va ben al di là della realtà come essa può apparire agli occhi di un qualsiasi, superficiale spettatore ed assume valore quasi pedagogico sulla varietà infinita delle disposizioni dell’animo umano e su quanto quest’ultimo possa superare, in ragione della sua natura multiforme, ogni ostacolo ed esprimersi su livelli diversi.


