31.12.20

Cara Tania, finisco di divagare e ti saluto

Si tratta della formula di chiusura all’epistola XLVII di Antonio Gramsci, da lui redatta nel carcere di Turi il 1 luglio 1929 ed indirizzata alla cognata Tanija Schucht.

Ne abbiamo testimonianza grazie alla raccolta postuma, più nota come “Lettere dal carcere”, che comprende la gran parte della corrispondenza che Gramsci intrattenne con familiari ed amici nel corso della sua detenzione, dal 1926 al 1934.

Corrispondenza, ovviamente, soggetta a rigidi controlli censori, dal momento che erano interdetti temi politici, così come era contingentata la sua cadenza nel tempo.

Tali macroscopiche limitazioni, espressione di quel regime carcerario, al limite del disumano, anziché fiaccare le sue forze, contribuiscono a disegnare una curiosa, quanto prodigiosa, parabola.

Un argomento del tutto ordinario (“ho ricevuto finalmente le famose sopracalze beduine, col resto: vanno benissimo, sembrano proprio inventate apposta per il mio bisogno”) è quindi funzionale a riflessioni su evidenze ben più tristi: l’atonia psichica che affligge i carcerati al terzo anno di detenzione (….al terzo anno, la massa di stimoli latenti che ognuno porta con sé dalla libertà e dalla vita attiva, comincia ad estinguersi e rimane quel barlume di volontà che si esaurisce nelle fantasticherie dei piani grandiosi mai realizzati: il carcerato si sdraia supino nella branda e passa il tempo a sputare contro il soffitto sognando cose irrealizzabili. Questo io non lo farò certamente, perché non sputo quasi mai e anche perché il soffitto è troppo alto!).

E proprio a questo punto, si compie una metamorfosi comunicativa; lo sfortunato protagonista, ben lungi dal cedere a facili ed umane derive psicologiche, concentra tutta la sua attenzione sulla vita e lo sviluppo di una piantina di rose presente nel cortile del carcere, trasfondendovisi, e proiettando tutto sé stesso, le sue sensazioni e le sue speranze (“la rosa è viva e fiorirà certamente, perché il caldo prepara il gelo e sotto la neve palpitano già le prime violette”), al di là della materialità contingente cui era costretto, manifestando, quindi, la sua umanità in una forma del tutto diversa (“il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me”).

          Una “divagazione” -la sua- che va ben al di là della realtà come essa può apparire agli occhi di un qualsiasi, superficiale spettatore ed assume valore quasi pedagogico sulla varietà infinita delle disposizioni dell’animo umano e su quanto quest’ultimo possa superare, in ragione della sua natura multiforme, ogni ostacolo ed esprimersi su livelli diversi.



17.12.20

Il filo rosso

Un’idea: cos’è esattamente?

    Assume le sembianze di un ineffabile afflato che ci pervade all’improvviso.

    In rari casi arriva a diventare la nostra unica ragione di vita, molte altre volte svanisce con la stessa velocità con cui si è manifestata.

    Altre volte ancora, induce una metamorfosi tale che ci fa comprendere esattamente il contrario di ciò che credevamo fino a quel momento.

    Nella maggior parte dei casi, convive tra gli alti e bassi del nostro animo, dividendo la scena con le sensazioni del nostro quotidiano (fame, sete, sonno, paura, noia).

    Come l’uovo di Colombo, l’input può nascere dalla vita reale, perché le idee sono paragonabili a un qualcosa che già concettualmente esiste, che è comunque davanti ai nostri occhi, ma che tuttavia deve essere afferrato e sperimentato per poter prendere vita.

    Nondimeno, la sua fruizione va condivisa, perché grazie alla partecipazione di un numero sempre più grande di persone disponibili ad analizzare, mettere in discussione, rifinire e migliorare qualsiasi idea, concetto, scoperta o contenuti di valore che suscitano interesse e curiosità, si stimolano domande, contributi e suggerimenti che portano ad interagire.

    Come in una democrazia fluida, più si condivide, più si sviluppa un senso di reciprocità con le persone con cui si è condiviso qualcosa di valore, mediante un canale di comunicazione che implementa i concetti come un circuito virtuoso.

    In tale contesto va senz’altro annoverata la filosofia TED.

    Nel 1984, quando nacque su iniziativa di Richard Saul Wurman e Harry Marks, fu concepito come evento unico, poi ripetuto su base annuale dal 1990. Attualmente è gestita dall'organizzazione privata non-profit statunitense Sapling Foundation.

    Con sede centrale a New York e a Vancouver, TED ha promosso conferenze cui hanno preso parte, come speaker, personalità illustri, statisti, scienziati ed attivisti politici.

    TED, seppur acronimo di Technologies, Entertainment & Design, proprio in ragione di quanto detto, spazia a trecentosessanta gradi su tutte le scienze umane.

    Non a caso il suo motto è "ideas worth spreading" (idee che val la pena diffondere).

    Anche Papa Francesco, a marzo 2017, ha partecipato a sorpresa a un TED a Vancouver avente come tema il futuro, inviando un video.    

    L’enorme interesse suscitato dall’iniziativa ha favorito lo sviluppo, prima dei TED event e poi dei TEDx, questi ultimi organizzati autonomamente in qualsiasi parte del mondo, ma comunque basati sulla filosofia TED, e nel pieno rispetto delle sue linee guida, tra le quali la gratuità e la fruibilità, su base multilingua, dei contenuti pubblicati.

    Ogni speaker può svolgere un intervento di durata non superiore a 18 minuti e lo fa da solo su un palco essenziale, quasi spartano, su cui campeggia un disco rosso ed il logo, anch’esso rosso, come quell’immaginario filo che lega chi parla con chi ne condivide, in qualsiasi modo, il suo intervento. 



3.12.20

(Un uomo) per tutte le stagioni

Le scelte di vita o, molto più semplicemente, il modo di essere di un personaggio come Harry Styles, autentica icona della pop music -con gli One Direction prima e come solista poi- spingono molti, e non solo i suoi milioni di follower, a riflettere su aspetti più profondi di un singolo episodio a lui attribuibili. 

    Il riferimento è, ovviamente, alla copertina del numero di dicembre di Vogue America. Per la prima volta, in 127 anni di attività, campeggia la foto di un uomo da solo. In altre precedenti nove occasioni l’obiettivo era comunque puntato su una coppia. 

    Il cantante vi appare in un completo giacca uomo doppiopetto e abito lungo da donna a balze, in perfetto look gender-fluid, griffato Gucci. 

    Su tale falsariga, nel luglio 2017, Zayn Malik, altro componente della band aveva conquistato la copertina al fianco di Gigi Hadid, sua compagna dell’epoca; una coppia etero, in cui però entrambi i partner indossavano abiti tra loro intercambiabili. 

    Ciò ha comportato inevitabili polemiche, sia pro che contro tale scelta editoriale. Candace Owens, attivista politica nota per le sue posizioni antifemministe e di aperto sostegno a Donald Trump, ha provocatoriamente invocato con nostalgia il ritorno del “maschio macho”, ricevendo via Twitter, per tutta risposta, un giudizio tranchant da Olivia Wilde (la dottoressa Remy “13” Hadley in Dr. House). 

    Harry Styles, che non ha mai disdegnato di esplorare territori espressivi, per così dire, non troppo convenzionali (non è difficile trovarlo sul suo profilo Instagram in unghie laccate e con tanto di attestazioni di stima alla sua nail artist personale), illumina sull’intangibilità solo presunta di certi modelli estetici, e su quanto questi ultimi possano condizionare, al di là di ogni ragionevolezza, la sensibilità invece unica, irripetibile, autentica e genuina di ogni essere umano. 

    Si badi, Harry non inventa nulla di nuovo; prima di lui artisti del calibro di David Bowie, Jared Letho e Marilyn Manson e tanti altri, hanno pigiato con decisione sul tasto della trasgressione, spesso ammantandola, tuttavia, di malcelata rabbia e protesta contro mondo troppo chiuso. 

    Nel caso di Styles, invece, la sua personalissima (rispettabile, ma non, per questo, meno opinabile) scelta di comunicare, scevra da cliché preconfezionati o, peggio ancora, imposti dall’esterno lascia ben sperare in un’umanità più libera e al tempo stesso inclusiva.