«Il
nostro giorno verrà». E’ una frase pronunciata incessantemente da Bobby
Sands, un ragazzo nato alla periferia di Belfast nel 1954, fin dalla sua
maggiore età, ed è legata alla causa dell’indipendenza irlandese.
Il
nome Roibeard Gearóid Ó Seachnasaigh, versione in gaelico di Robert Gerard
Sands, detto Bobby, potrà pur suonare poco familiare, ma la parabola di vita ed
il messaggio di colui che fu definito l’allodola
d’Irlanda, non può non suscitare riflessioni profonde.
Il
cuore di Bobby cessò di battere alle 1.17 di martedì 5 maggio 1981, dopo 66
giorni di sciopero della fame, nell’ospedale del carcere di Long Kesh, all’età
di 27 anni.
Una
protesta non violenta, la sua, condotta ad oltranza contro le condizioni di
vita riservate ai detenuti politici, rinchiusi nei Blocchi H, (così definiti
perché costituiti da 8 edifici, appunto a forma di H, per isolare ed esercitare
il massimo controllo sui prigionieri).
Sono
anni di lotta, a tutti i livelli, anche religioso (tra cattolici e protestanti).
Sullo sfondo, le rivendicazioni di autonomia per il Nord Irlanda.
La
conflittualità è esasperata ed i picchi di violenza raggiunta rappresentano un
affronto alla dignità umana.
La
popolazione carceraria non ne è immune, animata da dure rivolte, quali la blancket protest (rifiuto, per i
prigionieri politici, di indossare la divisa carceraria dei detenuti comuni,
restando con addosso solo una coperta) e la no
wash protest (rifiuto di usufruire dei servizi, con immaginabili
conseguenze in tema di pulizia e igiene).
In
un simile contesto di divisioni, Bobby trova, però, qualcosa che veicola
emozioni, al tempo stesso accomunando: il gaelico e la musica.
Impara
la lingua gaelica e con essa, sconosciuta ai secondini inglesi, comunica con i
suoi compagni (si dice appoggiandosi allo stipite della porta). Pure in gaelico
scrive il suo diario, dovendo peraltro utilizzare tutta l’inventiva di cui
dispone per far fronte alle ristrettezze impostegli dalla sua condizione: il
refill di una biro, della carta igienica o cartine di sigarette. Alla stessa
stregua compone dei messaggi clandestini, i c.d. “comms”, con cui condivide con
il mondo esterno, non solo il resoconto delle violenze perpetrate all’interno
di Long Kesh, ma il suo disperato anelito di libertà.
Con
la chitarra comporrà ballate popolari che superano i confini fisici delle
sbarre, e non solo quelli. Due delle più famose: “Back Home in Derry” e “McIlhatton”,
dopo la sua morte verranno fatte conoscere in tutto il mondo dal cantautore
irlandese Christy Moore.
Altri
dieci compagni di Bobby conosceranno la sua stessa sorte nell'arco di
pochissimo tempo, ma quel messaggio di libertà si diffonde in tutto il mondo,
con manifestazioni singolari, esempio lampante di come un ideale possa unire
persone assai distanti tra loro. Fra tutte spicca quella degli studenti di
Teheran che, nel pieno della loro rivoluzione, decisero di cambiare il nome
della via in cui si trovava l'ambasciata britannica: da Winston Churchill
Street a Bobby Sands Street. La via porta ancora oggi tale nome.
Dal
punto di vista politico quel sacrificio non fu vano; molti infatti
attribuiscono alla rinnovata consapevolezza popolare scaturita dalla morte di
Bobby Sands l’ascesa dello Sinn Fein (il braccio politico dell’IRA) sino alla
vittoria alle elezioni del 1984, primo passo verso la stipula dello storico
accordo di pacificazione del 10 aprile 1998, più noto come Accordo del Venerdì
Santo.
Chissà,
ad oggi, quanti ignari avventori all'interno di un pub posto in un angolo
qualsiasi del globo, rimasti colpiti dalle note di un’orecchiabile ballata
composta in una lingua sconosciuta, avranno avvertito un moto dell'animo e si
saranno interrogati sul perchè.

