C’è un luogo, sospeso tra interno ed esterno, rifugio e soglia, che attraversa la storia dell’abitare e, con essa, quella dello stare al mondo. Il balcone – architettura discreta e al tempo stesso dichiarazione pubblica di esistenza – ha sempre avuto una doppia funzione: proteggere e rivelare.
Nella sua forma più arcaica, il balcone nasce come semplice piattaforma di legno sporgente dalle facciate delle abitazioni, destinata all’osservazione o alla ventilazione degli ambienti interni. Il termine deriva dal latino medievale balco, a sua volta dal germanico balko, cioè trave: richiamo alla sua origine strutturale, prima ancora che simbolica.
Fu però nel Rinascimento italiano che il balcone si fece scena, parte integrante della teatralità dell’architettura urbana. Da elemento funzionale divenne soglia narrativa, luogo di passaggi simbolici: da dentro a fuori, dall’intimità alla comunità, dalla contemplazione all’appello.
Nella letteratura, il balcone è spesso il punto in cui l’invisibile si fa visibile. È il caso del celeberrimo affaccio di Giulietta, in Romeo e Giulietta di Shakespeare, in cui la giovane Capuleti pronuncia le sue parole più intime in uno spazio che è a un tempo privato e pubblico; in realtà, nel testo originale si parla genericamente di una window – una finestra – ma l’iconografia teatrale e cinematografica ha consacrato il balcone come simbolo immortale del dialogo amoroso.
Nella storia politica, il balcone ha avuto spesso un ruolo da protagonista. Basti pensare a Piazza Venezia, a Roma, dove il balcone di Palazzo Venezia divenne tribuna del potere durante il Ventennio fascista: da lì Mussolini arringava la folla, utilizzando lo spazio sospeso come teatro della propaganda. Ma lo stesso elemento architettonico ha ospitato parole di segno opposto: nel 1989, Vaclav Havel si affacciava da un balcone di Praga durante la Rivoluzione di Velluto, per parlare al popolo in nome della libertà.
Anche la musica ha i suoi balconi. Nel Don Giovanni di Mozart, il protagonista osserva – e spia – da un balcone. Nei versi di Les Fleurs du mal, Charles Baudelaire dedica un’intera poesia a "Le Balcon", metafora del ricordo e della nostalgia, luogo d’accesso al sogno e alla memoria:
"Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses,
Ô toi, tous mes plaisirs! ô toi, tous mes devoirs!"
Curioso è il caso di Maria Antonietta, futura regina di Francia, che nel 1770, ancora adolescente, giunta a Versailles per sposare il Delfino, chiese che fosse costruito per lei un balcone fittizio, privo di affaccio reale, rivolto verso un muro cieco all’interno del giardino privato. Non serviva a osservare né a essere vista: era un gesto intimo, quasi infantile, per fingere, anche solo per pochi attimi, di potersi sporgere su un mondo altro.
Quel balcone, simbolicamente inutile, diventa così uno dei più puri e poetici tentativi di evadere attraverso l’immaginazione, di stabilire una connessione con qualcosa di indefinito, ma profondamente desiderato. Era, in fondo, un affaccio sul sogno.
In ogni epoca, il balcone è una soglia – fisica e metaforica – di connessione tra l’io e l’altro, tra l’intimità e il mondo. Luogo della sospensione, del possibile, dell’attesa.
Spazio da cui si guarda e da cui si è guardati.
Un piccolo avamposto sul confine tra ciò che si custodisce e ciò che si condivide.
E quando due balconi si fronteggiano, il dialogo silenzioso tra vite parallele diventa possibile.
A volte basta un gesto, una luce accesa, un corpo che si affaccia, perché si instauri quella forma invisibile e misteriosa di comunicazione tra anime, che le parole, da sole, non riescono mai a spiegare fino in fondo.
Il balcone, quindi, è una soglia silenziosa tra intimità e mondo, tra solitudine e desiderio di contatto.

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