17.4.25

Un segno, un sogno, un inizio


La matita è uno strumento semplice ma essenziale, utilizzato per scrivere e disegnare. A prima vista può sembrare un oggetto modesto, ma racchiude in sé una storia affascinante, ricca di significato e simbolo tangibile della creatività, della comunicazione e della libertà di espressione.

Composta solitamente da un sottile cilindro di legno che custodisce un’anima di grafite, la matita (o lapis che dir si voglia) è il cuore nero e silenzioso da cui nascono parole, idee e immagini. 

La sua origine affonda nel tempo: prima della scoperta della grafite, venivano usati bastoncini di carbone o di ematite – da cui deriva il termine latino lapis haematites, “pietra di ematite” – per tracciare segni su varie superfici.

La nascita della matita moderna risale al XVI secolo, quando nella regione di Borrowdale, in Inghilterra, fu scoperta la grafite. Inizialmente usata per segnare le pecore, si rivelò perfetta per la scrittura e il disegno. Fu però nel 1795 che Nicolas-Jacques Conté, inventore francese, perfezionò lo strumento mescolando grafite e argilla e racchiudendola in un cilindro di legno: così nacque la matita che conosciamo oggi, diventata strumento universale per artisti, scrittori e pensatori.

Nel corso dei secoli, la matita ha attraversato culture, epoche e mani celebri.Pensiamo agli schizzi preparatori di Leonardo da Vinci o ai progetti architettonici di Frank Lloyd Wright: tutto è iniziato con una semplice linea. John Steinbeck, celebre autore di Furore, era noto per il suo amore per le matite: se ne dice consumasse centinaia mentre scriveva. Ancora oggi, per molti artisti, la matita rappresenta il primo passo verso la creazione, un momento intimo di dialogo con sé stessi.

La matita è anche un ponte tra passato e futuro. Non conosce barriere: può essere usata da chiunque, ovunque. Dai bambini che imparano a scrivere agli architetti che progettano edifici, è lo strumento che accompagna ogni inizio. Una semplice linea tracciata su un foglio può raccontare storie, trasmettere emozioni e perfino cambiare il mondo.

Lo dimostra anche l’attivista pakistana Malala Yousafzai, Premio Nobel per la Pace, che ha spesso evocato il potere della penna e della matita come simboli di educazione e libertà. Rivendicando il diritto delle bambine a studiare, ha dichiarato: “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”. La sua testimonianza ci ricorda che anche gli strumenti più umili possono diventare armi potenti per costruire un futuro migliore.

C’è una bellezza unica nella natura effimera della matita: ciò che scrive può essere cancellato, ma non dimenticato. La sua fragilità ci ricorda che anche le idee più semplici possono lasciare un segno profondo. Non serve essere grandiosi per fare la differenza; basta avere il coraggio di iniziare.

E così, mentre stringiamo tra le dita una matita, possiamo immaginare tutte le connessioni invisibili che essa crea: tra chi scrive e chi legge, tra chi sogna e chi realizza. La matita diventa un filo sottile ma resistente che cuce le distanze tra epoche e persone. Ogni tratto unisce, ogni parola scritta avvicina.

Nella sua essenza umile, troviamo il potere più grande: quello di connetterci, di riconoscerci l’uno nell’altro, attraverso ciò che lasciamo sulla carta. Perché, in fondo, siamo tutti segni—tracce leggere ma preziose—disegnati sul grande foglio dell’umanità. E ogni linea che tracciamo è un invito a continuare insieme il disegno.



3.4.25

Lì dove le vite si sfiorano

C’è un luogo, sospeso tra interno ed esterno, rifugio e soglia, che attraversa la storia dell’abitare e, con essa, quella dello stare al mondo. Il balcone – architettura discreta e al tempo stesso dichiarazione pubblica di esistenza – ha sempre avuto una doppia funzione: proteggere e rivelare.
Nella sua forma più arcaica, il balcone nasce come semplice piattaforma di legno sporgente dalle facciate delle abitazioni, destinata all’osservazione o alla ventilazione degli ambienti interni. Il termine deriva dal latino medievale balco, a sua volta dal germanico balko, cioè trave: richiamo alla sua origine strutturale, prima ancora che simbolica.
Fu però nel Rinascimento italiano che il balcone si fece scena, parte integrante della teatralità dell’architettura urbana. Da elemento funzionale divenne soglia narrativa, luogo di passaggi simbolici: da dentro a fuori, dall’intimità alla comunità, dalla contemplazione all’appello.
Nella letteratura, il balcone è spesso il punto in cui l’invisibile si fa visibile. È il caso del celeberrimo affaccio di Giulietta, in Romeo e Giulietta di Shakespeare, in cui la giovane Capuleti pronuncia le sue parole più intime in uno spazio che è a un tempo privato e pubblico; in realtà, nel testo originale si parla genericamente di una window – una finestra – ma l’iconografia teatrale e cinematografica ha consacrato il balcone come simbolo immortale del dialogo amoroso.
Nella storia politica, il balcone ha avuto spesso un ruolo da protagonista. Basti pensare a Piazza Venezia, a Roma, dove il balcone di Palazzo Venezia divenne tribuna del potere durante il Ventennio fascista: da lì Mussolini arringava la folla, utilizzando lo spazio sospeso come teatro della propaganda. Ma lo stesso elemento architettonico ha ospitato parole di segno opposto: nel 1989, Vaclav Havel si affacciava da un balcone di Praga durante la Rivoluzione di Velluto, per parlare al popolo in nome della libertà.
Anche la musica ha i suoi balconi. Nel Don Giovanni di Mozart, il protagonista osserva – e spia – da un balcone. Nei versi di Les Fleurs du mal, Charles Baudelaire dedica un’intera poesia a "Le Balcon", metafora del ricordo e della nostalgia, luogo d’accesso al sogno e alla memoria:
"Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses,
Ô toi, tous mes plaisirs! ô toi, tous mes devoirs!"
Curioso è il caso di Maria Antonietta, futura regina di Francia, che nel 1770, ancora adolescente, giunta a Versailles per sposare il Delfino, chiese che fosse costruito per lei un balcone fittizio, privo di affaccio reale, rivolto verso un muro cieco all’interno del giardino privato. Non serviva a osservare né a essere vista: era un gesto intimo, quasi infantile, per fingere, anche solo per pochi attimi, di potersi sporgere su un mondo altro.
Quel balcone, simbolicamente inutile, diventa così uno dei più puri e poetici tentativi di evadere attraverso l’immaginazione, di stabilire una connessione con qualcosa di indefinito, ma profondamente desiderato. Era, in fondo, un affaccio sul sogno.
In ogni epoca, il balcone è una soglia – fisica e metaforica – di connessione tra l’io e l’altro, tra l’intimità e il mondo. Luogo della sospensione, del possibile, dell’attesa. 
Spazio da cui si guarda e da cui si è guardati. 
Un piccolo avamposto sul confine tra ciò che si custodisce e ciò che si condivide.
E quando due balconi si fronteggiano, il dialogo silenzioso tra vite parallele diventa possibile. 
A volte basta un gesto, una luce accesa, un corpo che si affaccia, perché si instauri quella forma invisibile e misteriosa di comunicazione tra anime, che le parole, da sole, non riescono mai a spiegare fino in fondo.
Il balcone, quindi, è una soglia silenziosa tra intimità e mondo, tra solitudine e desiderio di contatto.