Quando si parla di mitologia, il pensiero corre inevitabilmente alla figura di Omero e ai suoi poemi.
Ed a ben guardare, si tratta di concetti che sembrano fondersi.Le più ardite tesi elaborate sulla questione omerica si spingono sino addirittura a negare l’esistenza fisica del poeta, tutte comunque concordando sulla presenza di una tradizione, essenzialmente orale, alla base della produzione letteraria scritta.
Su quel materiale, i giovani dell’epoca non approfondivano unicamente la lingua; esse costituivano il punto di riferimento da cui apprendere i basilari valori delle norme etiche e religiose, nell’ottica di crescita e costruzione di una coscienza personale.
I poemi omerici, soprattutto l’Iliade, risentono inoltre fortemente della religione olimpica e della sua concezione antropomorfica degli dei, che appaiono molto simili agli uomini, sia per virtù che per debolezze.
I rapporti privati dell’individuo con la divinità restano sullo sfondo, quasi irrilevanti.
Viceversa, domina il concetto di Fato, che, ben più forte, governa sui destini degli dei e degli uomini, incapaci di comprenderlo, al pari di una necessità cosmica, neutra ed impersonale che appare casuale e che invece guida il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile.
Forse fu quello stesso Fato che, nel Natale del 1829, pose tra le mani di un vivace frugoletto di sette anni un libro di storia per bambini.
Heinrich Schliemann –questo il nome del bambino- rimase folgorato dalle illustrazioni riguardanti l’incendio di Troia –la mitica Ilio- e le sue imponenti mura, mai ritrovate e per questo ritenute di pura immaginazione. Un sogno collettivo.
Riuscire a riportare personalmente alla luce l’antica Troia e così dimostrarne la sua realtà al mondo che invece la riteneva una pura licenza poetica, divenne, in quel preciso istante, la sua unica ragione di vita.
Negli anni a venire il Fato riservò generosamente in dono a Schliemann una non comune intraprendenza ed acutissime capacità intellettive, tali da consentirgli di accumulare risorse economiche che, da modesto garzone di bottega, lo resero uno degli uomini d’affari tra i più facoltosi d’Europa.
Potendo pertanto vivere di rendita, abbandonò quei lucrosi commerci e decise di impiegare buona parte delle fortune ricavate per inseguire il “suo” sogno: trovare la “ventosa pianura di Troia” descritta da Omero.
La meticolosa conoscenza di quei versi antichi (o il Fato ?) fu alla base dell’intuizione che lo portò a concentrare uomini e mezzi presso un sito mai esplorato prima da nessuno, nello stretto dei Dardanelli.
Al suo fianco, la seconda moglie Sophia Engastromenou, non ancora ventenne, “fatalmente” scelta come compagna di vita, perché, al tempo stesso, greca, povera, giovane, bella, di temperamento ardimentoso ed erudita sui classici (conosceva bene le opere di Omero).
E, successivamente, madre dei suoi figli, cui fu dato il nome di Agamennone e Andromaca, perchè al Fato non può certo difettar la coerenza.
Nella mattinata del 14 giugno 1873, l’ultimo giorno di lavori prima della scadenza della concessione, con conseguente interruzione delle operazioni, il Fato, assunte stavolta le sembianze di un provvido attrezzo da scavo, fece emergere dal terreno un oggetto luccicante.
Schliemann, presago del successo, prudenzialmente congedò le maestranze e tornò sul sito solamente a notte fonda, con accanto Sophia.
Fu così che nell’ampio scialle della donna trovarono amorevole accoglienza, a più riprese, i migliaia di reperti emersi, tutti di pregevolissima fattura.
Quello più bello, però -un diadema composto da 16.000 lamine d’oro puro- su insistenza di suo marito, le adornò il capo, quasi da rediviva Elena in un romantico flashback sognato per una vita.
A prima vista sembrava essere il tesoro di Priamo, ma apparteneva alle vestigia di una città fiorita circa mille anni prima di Ilio. Le moderne tecniche, associate alla ricerca archeologica, hanno infatti consentito di appurare che il sito su cui insiste l’agglomerato urbano di Troia consta di nove livelli sovrapposti tra loro, succedutisi nel tempo, dall’età del bronzo all’età bizantina e che pertanto le gesta degli eroi omerici ebbero come teatro, più precisamente, il sesto, a partire dallo strato più basso.
Al di là della datazione e dell’attribuzione dei resti rinvenuti da Schliemann, ciò valse comunque a dimostrare al mondo intero che il suo non fu il capriccio di un visionario.
E che la città di Troia, nel suo destino distrutta e riedificata per ben nove volte, forse rappresenta la metafora di quell’ignota connessione che unisce mito e realtà, spirituale e materiale, morte e rinascita.
Fatale, per l'appunto.
