26.8.21

L’uomo sbagliato al momento giusto


 Cara Wanda,
    tu non lo crederai. 
    Che lo abbia voluto o meno, ho fatto del bene e portato a molti emarginati, che mi hanno scritto e cercato in tutti questi anni, la forza di cercare un riscatto umano, la volontà di essere se stessi, al di là dei giudizi della gente. 
    Alcune persone hanno trovato, in alcune pagine di “Altri libertini”, una ragione per andare avanti e dare un senso alla propria vita”.

    Chi scrive queste parole, nel 1980, è Pier Vittorio Tondelli, in una lettera indirizzata alla sua insegnante di liceo, che lo aveva contattato preoccupata per via delle tormentate vicende di carattere giudiziario sorte all’indomani della pubblicazione del libro “Altri libertini”.

   Era infatti successo che il Tribunale dell’Aquila, con provvedimento a firma del Giudice Bartolomei, avesse disposto il sequestro della pubblicazione, ritenendola “opera luridamente blasfema”.

    Una tale forma di damnatio memoriae -miope, anacronistica ed immotivata- non potè avere lunga vita ed il libro, ritornato ben presto ad essere fruibile, divenne un vero e proprio “caso letterario”.

    Dopo “altri libertini”, termini come “giovanilismo” e “postmoderno” otterranno a pieno titolo cittadinanza ed avranno un senso più compiuto.

    Sei racconti, messi insieme a mò di romanzo dal suo autore, in cui Tondelli, con mirabile sensibilità e non comune senso di osservazione, riesce a cogliere, fin dalle percezioni più profonde, il disincanto e la fame di vita di un’intera generazione, a suo modo rivoluzionaria e perciò in palese contrasto con i consueti schemi e modelli di pensiero.

    Vi riesce, grazie all’uso di un registro linguistico –un argot- crudo, aspro, del tutto privo di manierismi, anzi infarcito di coloriture lessicali, alcune delle quali decisamente forti.

    Anche il contesto è originale: non più la rutilante vita di città, ma la provincia ed il suo microcosmo fatto di luoghi e rituali, in cui i protagonisti decidono di esprimersi al netto di qualsivoglia freno morale (o moralistico), a trecentosessanta gradi, affidando a quella vita vissuta “pericolosamente” il loro anelito di un mondo diverso, al di là delle frustrazioni derivanti dai conformismi imposti dalla società.

    Difficile ma non impossibile da raggiungere.

  Tondelli, diviene così, suo malgrado, un autore di rottura, l’involontaria icona di un movimento, catalizzando però su di sé gli strali dei suoi reazionari detrattori.

    Anche la sue scelte di vita, del tutto personali e private, ma non per questo segrete, restano sacrificate sull’altare dell’ortodossia di pensiero ed oggetto di ingiuste strumentalizzazioni.

    Fino a giungere a quella più estrema, la più dolorosa.

  Nel giorno del suo addio alla vita, nel dicembre del '91, la sua famiglia ne annuncia la dipartita per una “polmonite bilaterale”, quasi che la morte per AIDS potesse costituire un marchio infamante.

   Racchiudere una personalità così così delicata e sensibile entro rigide e sterili classificazioni è ingiusto e riprovevole. Tondelli non fu uno “scrittore omosessuale ”, “un libertino che andava in paradiso dopo aver espiato le proprie colpe e affrontato la malattia da vero cristiano”.

    Fu qualcos’altro.

   Il suo testamento spirituale si evidenzia nelle affermazioni descrittive di sé stesso, permeate di dolce malinconia, che, con lungimiranza, quasi da preveggente, l’autore lascia pronunciare a Leo, suo alter ego, nonché protagonista del suo ultimo romanzo, del 1989, “Camere separate”:  “Si sarebbe sentito in contatto con i suoi coetanei, li avrebbe cercati iscrivendosi all’università di Bologna, li avrebbe trovati solo per rendersi conto che la propria vita si sarebbe giocata in solitudine e avrebbe potuto unirsi agli altri unicamente attraverso l’esercizio solitario e distanziato di una pratica vecchia come il mondo: la scrittura. Avrebbe capito che non sarebbe mai stato un protagonista, ma un osservatore”.

   Un osservatore dell’anima delle persone, dei loro moti, del bisogno di comprensione e di inclusione sociale.


12.8.21

Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi…


Nella poetica pittorica di Amedeo Modigliani, il ritratto rappresenta un vitale strumento di esternazione dell’ansia, profondamente umana, d’intrecciare uno scambio relazionale con altri esseri.

    Essere ritratti da Amedeo Modigliani era, infatti, come "farsi spogliare l'anima".

   Tuttavia, in quasi tutti i suoi ritratti femminili, Amedeo Modigliani dipingeva occhi privi di pupille, piuttosto vitrei (secondo alcuni, frutto di un rapporto travagliato con il gentil sesso, reliquato di probabili traumi del passato).

   «No, non dipingerò i tuoi occhi… non adesso… non prima di avere dischiuso il mistero della tua anima… un giorno dipingerò i tuoi occhi.».

    E’ così che disse il Maestro, rivolgendosi a Jeanne Hébuterne, i cui ritratti sono la più eccelsa e meravigliosa dichiarazione d’amore del pittore nei suoi confronti.

    Jeanne, infatti, vi appare protagonista in oltre 20 quadri dell’artista, con ogni abito, in ogni posa, con ogni stato d’animo: estremo e palpabile esempio “della consapevolezza dell’appartenenza reciproca, del sentimento della vicinanza, della considerazione”.

  La dolce figura di Jeanne Hébuterne, il suo viso candido ed i suoi occhi chiarissimi incorniciati –a contrasto- da una cascata di capelli scuri, sono il più eloquente paradigma della loro non comune storia d’amore. 

    Una totale condivisione di anime. Amore e follia che si incrociano. E si fondono.

   Amedeo Modigliani e la sua musa accomunarono i rispettivi destini, seppur tragici e pregni di dolore, sublimando proprio quelle contraddizioni che immancabilmente balzano agli occhi di osservatori solo superficiali e convenzionali delle dinamiche della vita: lei giovane e timida pittrice alle prime armi, di rigorosa ispirazione cattolica, dal carattere introverso e dai modi gentili, lui “artista maledetto”, dissoluto, poco incline alle regole e schiavo del vizio e degli eccessi, a sua volta oggetto del feroce stigma antisemita.

    I due si conoscono nel febbraio del 1917, in occasione di una festa di carnevale organizzata dall’Académie Colarossi, che entrambi frequentano; Modì ha 33 anni, la sua “noix de coco”, 19.

    L’amore tra i due è questione di pochi istanti, ma nessuno, nell’entourage del pittore, pone ragionevoli aspettative sull’unione, vista peraltro la recente e turbolentissima fine della relazione del pittore con Beatrice Hastings (un rapporto che, a detta dei più, fu alla base della sua dipendenza da alcool e droghe).

    Jeanne, in rotta con la sua famiglia, va via di casa nel mese di luglio ed i due decidono di andare a vivere insieme in un malridotta ed umida magione nel quartiere di Montparnasse, ottenuta grazie ad un modesto appannaggio di Léopold Zborowski, mecenate di vari artisti, tra i quali Chagall.

    La situazione di salute di Amedeo, ormai minata dagli eccessi, e la gravidanza di Jeanne, consigliano un trasferimento in Costa Azzurra.

    A novembre del ‘18, a Nizza, vede la luce la piccola Jeanne, chiamata come sua madre ed alla quale il padre non riesce a dare il suo cognome perché quel giorno, troppo impegnato a tirar tardi nei locali per festeggiare, trova chiuso l’ufficio anagrafe, salvo, poi, non tornarvici mai più.

   Nel maggio del ’19, Modigliani ritorna a Parigi, ma il mese dopo Jeanne gli preannuncia di essere di nuovo incinta e di volerlo raggiungere. Matura così la sua intenzione di sposarla, non appena in possesso dei necessari documenti richiesti alla natia municipalità di Livorno. Ne lascia memoria scritta, in cui, peraltro, trascrive erroneamente l'ortografia del nome della sua amata.

     L’intenzione naufragherà miseramente, così come la sua lotta alla dipendenza (anch’essa sancita per iscritto in calce ad un quadro, “Il ritratto di Mario Varvogli”).

   La salute di Amedeo peggiora, irreversibilmente, sino al gennaio del ’20, allorquando, i vicini di casa, allarmati da un prolungato silenzio, trovano Modigliani, preda della meningite tubercolare, con stretta accanto la sua amata, al nono mese di gravidanza, terrorizzata ed impotente di fronte a cotanta situazione.

    L’artista giunge in ospedale in condizione disperate e vi muore due giorni dopo, il 24 gennaio.

    Jeanne alla notizia della morte del compagno, trascorre una prima notte in albergo, in preda alla più cupa disperazione (il rinvenimento, l’indomani, da parte di una cameriera, di un rasoio sotto il cuscino, è triste presagio di gesti folli).

  Jeanne va in ospedale a rivedere il suo Amedeo per l’ultima volta, accompagnata dal padre. Quella notte si rifugia a casa dei genitori dove il fratello Andrè le tiene compagnia.

    Ma, all’alba, assopitosi Andrè, Jeanne si lascia scivolare dalla finestra del quinto piano, ponendo fine alla sua esistenza e portando con sé l’altro frutto del loro amore, un maschietto, ormai in procinto di affacciarsi alla vita.

    Il commiato al mondo dei due segue percorsi, inizialmente opposti, ma poi inesorabilmente coincidenti, come tutta la loro storia.

  Ad Amedeo Modigliani, per espressa volontà del fratello, vengono tributate esequie “come da principe” e, tra due ali di folla in corteo, gli viene accordata sepoltura al cimitero di Pere-Lachaise.

    Jeanne, invece, viene tumulata, alle otto del mattino, in un cimitero di periferia, quasi in segreto, perché i suoi genitori così volevano, nel malcelato tentativo di evitare “scandali”.

    Solo dieci anni dopo, grazie al fattivo interessamento, non solo della famiglia Modigliani, che nel frattempo aveva fatto sì che la piccola Jeanne potesse assumere il cognome paterno, ma anche di leali e sinceri amici della coppia, i due potranno finalmente riposare nel medesimo avello, la cui ingenerosa epigrafe descrive la Hèbuterne come “Compagna devota fino all'estremo sacrifizio”.

  Amedeo e Jeanne sono altro e ben di più che l’espressione di una semplice “devozione” reciproca.

    Soccorrono, a descriverli, citazioni di sapore letterario.

    Corrado Augias, nel suo libro “Modigliani, l’ultimo romantico”, scrive: “Dicono di averli visti seduti per ore a un tavolino della Rotonde fissando qualcosa davanti a sé, senza scambiarsi una sola parola, presi in realtà l’uno dell’altra, consapevoli di una felicità che la semplice vicinanza rende concreta. Del resto, era abitudine condivisa dai due compagni il sedersi l’uno di fronte all’altra e dipingersi”.

  E l’angelica Jeanne, la timida diciannovenne che parlava per sussurri e si muoveva a scatti?

    Ci piace immaginarla all’atto di pronunciare la frase che dà il titolo ad un libro di Olga Marciano ed Imma Battista sulle opere di Modigliani: “Avete mai amato così profondamente da condannare voi stessi all’inferno? Io l’ho fatto”.