20.8.20

The Other

Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.

    Questa frase di Italo Calvino, tratta dal suo romanzo “Il barone rampante”, dà l’idea di quanto potesse essere stretto il legame tra Marina Abramovich e Ulay (al secolo Frank Uwe Laysiepen).
    Per più di dodici anni, i due, nati lo stesso giorno –il 30 novembre- ma in anni diversi, costituirono un sodalizio, non solo artistico, chiamato The Other.
    Un termine che evoca con immediatezza l’oscillazione tra due distinti poli.
    Del resto, i vissuti personali dei protagonisti ne sono eloquente testimonianza.
    Lei, di Belgrado, nipote diretta di un patriarca ortodosso, proclamato santo alla morte.
    Lui, figlio di un gerarca nazista, di Berlino, nel periodo in cui conobbe Marina, era solito esasperare fisicamente la opposizione tra generi, truccandosi il viso per metà e giocando con il suo doppio femminile.
    Si conoscono e si frequentano ad Amsterdam (che si trova esattamente a metà strada tra Belgrado e Berlino) e da lì decidono di girare per tutta Europa su un riciclato furgone Citroen, di quelli in uso alla polizia francese, al di fuori di ogni convenzione borghese, ponendo le basi per la definitiva consacrazione del loro personale concetto di Performance art: una costruzione mentale e fisica che l’artista realizza in un tempo e in uno spazio specifico di fronte a un pubblico che, a differenza di quanto normalmente avviene, può partecipare in maniera più o meno consapevole ed esservi coinvolto più o meno attivamente.
  Durante una performance, infatti, viene a formarsi una decisa comunicazione con il creatore dell’opera, in un dialogo focalizzato proprio sull’interazione che pone artista e pubblico sullo stesso piano, mescolando a volte i confini dell’uno e dell’altro ruolo.
   Un evento di natura effimera, “hic et nunc”, che dura nel tempo di un qui e adesso, non del tutto prevedibile e perciò irripetibile nella sua unicità e la cui fondamentale caratteristica, quindi, è l’oscillazione tra un polo e l’altro; sarà la natura a determinare la piega degli eventi, a dimostrazione di come la realtà sia un gioco di estremi.
    Le loro opere sono la conseguente trasposizione nella realtà di questi concetti.
    In “Rest Energy”, tra i due si frappone un arco teso che li unisce e, contemporaneamente, li separa. Lei impugna l’arco, mentre lui tiene tesa la freccia puntata sul suo cuore: una sola esitazione da parte di lei o di Ulay avrebbe segnato la fine, solo l’arco li tiene in piedi. I microfoni registrano i battiti del cuore e il respiro affannato di entrambi: la vita di lei è in balia dell’equilibrio che si crea tra di loro. La performance dura quattro interminabili minuti, in cui riescono a rappresentare i concetti di tempo e di fiducia in un unico gesto, come ad indicare che il segreto di una relazione di coppia è proprio il continuo bilanciamento dei ruoli.
    In “Death Itself”, Abramovic e Ulay due uniscono le labbra, tappandosi le narici con filtri per sigarette e respirando l’aria espulsa dall’altro fino a terminare l’ossigeno a disposizione e poi cadere a terra privi di sensi dopo 17 minuti. Quasi a voler drammaticamente esplorare la capacità dell’individuo di assorbire e distruggere la vita altrui.
    “Imponderabilia”, nei locali della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, vede i due posizionarsi, uno di fronte all’altra all’ingresso della Galleria, completamente nudi, così costringendo il pubblico ad entrare nel museo attraversando i loro corpi. Dal momento che lo spazio era strettissimo, i visitatori non avevano la possibilità di passare guardando dritti davanti a loro, ma dovevano per forza scegliere se guardare lei o lui, o magari entrambi, in una metafora neanche troppo astratta sulla vita e sulle sue scelte che partono dall’intimo più profondo e si manifestano d’impronta, senza pensarci.
    Dopo dodici, intensi anni, i due capiscono che si approssima un punto di svolta della loro unione, e decidono di immortalare alla loro maniera quel particolare momento, lasciando la regia del tutto alla vita, che è poi la loro stessa arte.
   Organizzano, dopo aver risolto molti ostacoli di natura legale, una performance, chiamata “The Lovers: The Great Wall Walk”.
    Scenario la Grande Muraglia Cinese, una delle poche opere umane che si può ammirare anche dallo spazio.
  Partendo dai due estremi (Ulay, da Occidente, dal deserto del Gobi, a rappresentare il fuoco, il maschile; Marina, da Oriente, dal Mar Giallo, a rappresentare l’acqua, il femminile), si incontreranno, a metà strada, dopo novanta giorni, in un finale volutamente aperto.
    Ed il destino non tarderà ad emettere i suoi responsi.
    Ulay, estroso e carismatico artista, insofferente alle regole, durante il viaggio intreccerà una relazione con la sua interprete cinese, che peraltro rimarrà incinta (genitorialità che Marina aveva consapevolmente declinato in tre distinte occasioni, quale estremo sacrificio d’amore per la sua arte).
    Il finale –a questo punto- è piuttosto prevedibile; quando i due si incontrano, Ulay chiede a Marina: “Che cosa devo fare adesso?” e lei risponde: “non lo so, ma io me ne vado”.
   Scena puntualmente ripresa dalle telecamere della BBC, che sulla performance stava girando un documentario e che forse auspicava un happy ending o perlomeno un finale diverso. E’ il 1988.
    I due procederanno autonomamente nella loro brillante vita artistica, regalando al mondo ulteriori capolavori.
   Nel 2010, Marina organizza presso il MoMA di New York una performance chiamata “The artist is present”.
  L’artista rimane seduta davanti ad un tavolo con di fronte una sedia vuota.
    Per più di dodici anni, i due, nati lo stesso giorno –il 30 novembre- ma in anni diversi, costituirono un sodalizio, non solo artistico, chiamato The Other.
    Un termine che evoca con immediatezza l’oscillazione tra due distinti poli.
    Del resto, i vissuti personali dei protagonisti ne sono eloquente testimonianza.
    Lei, di Belgrado, nipote diretta di un patriarca ortodosso, proclamato santo alla morte.
    Lui, figlio di un gerarca nazista, di Berlino, nel periodo in cui conobbe Marina, era solito esasperare fisicamente la opposizione tra generi, truccandosi il viso per metà e giocando con il suo doppio femminile.
    Si conoscono e si frequentano ad Amsterdam (che si trova esattamente a metà strada tra Belgrado e Berlino) e da lì decidono di girare per tutta Europa su un riciclato furgone Citroen, di quelli in uso alla polizia francese, al di fuori di ogni convenzione borghese, ponendo le basi per la definitiva consacrazione del loro personale concetto di Performance art: una costruzione mentale e fisica che l’artista realizza in un tempo e in uno spazio specifico di fronte a un pubblico che, a differenza di quanto normalmente avviene, può partecipare in maniera più o meno consapevole ed esservi coinvolto più o meno attivamente.
  Durante una performance, infatti, viene a formarsi una decisa comunicazione con il creatore dell’opera, in un dialogo focalizzato proprio sull’interazione che pone artista e pubblico sullo stesso piano, mescolando a volte i confini dell’uno e dell’altro ruolo.
   Un evento di natura effimera, “hic et nunc”, che dura nel tempo di un qui e adesso, non del tutto prevedibile e perciò irripetibile nella sua unicità e la cui fondamentale caratteristica, quindi, è l’oscillazione tra un polo e l’altro; sarà la natura a determinare la piega degli eventi, a dimostrazione di come la realtà sia un gioco di estremi.
    Le loro opere sono la conseguente trasposizione nella realtà di questi concetti.
    In “Rest Energy”, tra i due si frappone un arco teso che li unisce e, contemporaneamente, li separa. Lei impugna l’arco, mentre lui tiene tesa la freccia puntata sul suo cuore: una sola esitazione da parte di lei o di Ulay avrebbe segnato la fine, solo l’arco li tiene in piedi. I microfoni registrano i battiti del cuore e il respiro affannato di entrambi: la vita di lei è in balia dell’equilibrio che si crea tra di loro. La performance dura quattro interminabili minuti, in cui riescono a rappresentare i concetti di tempo e di fiducia in un unico gesto, come ad indicare che il segreto di una relazione di coppia è proprio il continuo bilanciamento dei ruoli.
    In “Death Itself”, Abramovic e Ulay due uniscono le labbra, tappandosi le narici con filtri per sigarette e respirando l’aria espulsa dall’altro fino a terminare l’ossigeno a disposizione e poi cadere a terra privi di sensi dopo 17 minuti. Quasi a voler drammaticamente esplorare la capacità dell’individuo di assorbire e distruggere la vita altrui.
    “Imponderabilia”, nei locali della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, vede i due posizionarsi, uno di fronte all’altra all’ingresso della Galleria, completamente nudi, così costringendo il pubblico ad entrare nel museo attraversando i loro corpi. Dal momento che lo spazio era strettissimo, i visitatori non avevano la possibilità di passare guardando dritti davanti a loro, ma dovevano per forza scegliere se guardare lei o lui, o magari entrambi, in una metafora neanche troppo astratta sulla vita e sulle sue scelte che partono dall’intimo più profondo e si manifestano d’impronta, senza pensarci.
    Dopo dodici, intensi anni, i due capiscono che si approssima un punto di svolta della loro unione, e decidono di immortalare alla loro maniera quel particolare momento, lasciando la regia del tutto alla vita, che è poi la loro stessa arte.
   Organizzano, dopo aver risolto molti ostacoli di natura legale, una performance, chiamata “The Lovers: The Great Wall Walk”.
    Scenario la Grande Muraglia Cinese, una delle poche opere umane che si può ammirare anche dallo spazio.
  Partendo dai due estremi (Ulay, da Occidente, dal deserto del Gobi, a rappresentare il fuoco, il maschile; Marina, da Oriente, dal Mar Giallo, a rappresentare l’acqua, il femminile), si incontreranno, a metà strada, dopo novanta giorni, in un finale volutamente aperto.
    Ed il destino non tarderà ad emettere i suoi responsi.
    Ulay, estroso e carismatico artista, insofferente alle regole, durante il viaggio intreccerà una relazione con la sua interprete cinese, che peraltro rimarrà incinta (genitorialità che Marina aveva consapevolmente declinato in tre distinte occasioni, quale estremo sacrificio d’amore per la sua arte).
    Il finale –a questo punto- è piuttosto prevedibile; quando i due si incontrano, Ulay chiede a Marina: “Che cosa devo fare adesso?” e lei risponde: “non lo so, ma io me ne vado”.
   Scena puntualmente ripresa dalle telecamere della BBC, che sulla performance stava girando un documentario e che forse auspicava un happy ending o perlomeno un finale diverso. E’ il 1988.
    I due procederanno autonomamente nella loro brillante vita artistica, regalando al mondo ulteriori capolavori.
   Nel 2010, Marina organizza presso il MoMA di New York una performance chiamata “The artist is present”.
  L’artista rimane seduta davanti ad un tavolo con di fronte una sedia vuota.
  Ogni visitatore può sedervisi e condividere, in silenzio, con lei impassibile, due minuti di tempo.
  Nel corso della performance si alternano, per tre mesi, per sette ore al giorno, migliaia di persone.
 Molti escono in lacrime. Marina, pur nella sua profonda ed intensa interpretazione, non muove ciglio.
  Ma un giorno, a sorpresa, arriva Ulay, il suo “The Other”: i due non si vedevano da quasi 23 anni, dal loro addio sulla Muraglia Cinese. 
    Stavolta è Marina a commuoversi; sconvolgendo il concept dell’opera, tende le mani ad Ulay, crea un contatto fisico con lui, immediatamente recepito.
    I due si sorridono, si parlano fitto, visibilmente e reciprocamente coinvolti.
    I due minuti canonici sembrano interminabili.
    I due opposti, per un momento, sono nuovamente un’unità.
    Per un momento, però.
    Perché la vita -che è other- riserva un finale diverso anche in quest’occasione.
   Nei mesi successivi Ulay conviene in giudizio Marina per ottenere la sua quota di royalties per alcune delle loro comuni opere (che complessivamente vanno sotto il nome di Relation Works), riuscendo a percepire la somma di 250mila euro.
    L’unità si sdoppia nuovamente in due parti estremi conflittuali.
   A marzo del 2020, la morte di Ulay –che nel frattempo riuscì a trasformare la sua malattia in un artistico strumento di condivisione realizzando un corposo e crudo documentario dal titolo “Project Cancer”- ha solo fisicamente diviso quelle due metà, la cui sinergia, a volte inspiegabile, per quanto di fatto precaria, ha comunque dimostrato come un rapporto si basi su affinità elettive che prescindono del tutto dai comuni concetti.


6.8.20

Qualcuno disse che la pace del mondo era nelle nostre mani, ma io giocavo solo a ping-pong

La disciplina sportiva del ping pong evoca, in senso figurato, una contrapposizione tra due soggetti posti ai lati opposti di un tavolo.

La sfida che deve designare il vincitore, nell'immaginario collettivo, è inoltre caratterizzata dal rimo frenetico delle dinamiche di gioco, frutto di acceso agonismo.

Eppure, proprio al mondo del ping pong è legato un episodio che negli anni ’70 mise in connessione tra loro due paesi, espressione di culture totalmente inaccostabili, favorendone la riconciliazione e diede origine alla cosiddetta ping pong diplomacy.

Per contestualizzarlo meglio, val bene rammentare che ci troviamo in un momento storico a dir poco delicato nello scacchiere geopolitico,

Sono anni in cui il sentimento nazionale di qualsiasi popolo è, per forza di cose, permeato del più rigido dogmatismo ideologico.

Da quando il Partito Comunista Cinese di Mao Zedong aveva preso il potere 22 anni prima, nel 1949, solo undici americani furono ammessi nella Cina comunista, per una settimana, in quanto affiliati al Partito internazionale delle Pantere Nere che la Cina considerò l'organizzazione internazionale come un'ambasciata statunitense.

Tuttavia si trattò di un evento isolato: come altri cittadini americani, anche il senatore Eugene McCarthy espresse il desiderio di visitare la Cina dopo le elezioni presidenziali del 1968, ma nemmeno lui riuscì ad ottenere un ingresso in Cina nonostante la sua carica istituzionale.

Gli artefici di un’impresa di tal fatta rispondono al nome di Glenn Cowan e Zhuang Zedong, i giocatori più rappresentativi delle nazionali di USA e Cina di tennis tavolo, contraddistinti da personalità diametralmente opposte: il primo, anticonformista, estroverso ed hippy, il secondo, eroe nazionale, pluricampione mondiale, personalmente stimato dal Gran Timoniere Mao (la cui amicizia gli valse il carcere nel suo paese nei successivi anni di repressione legati alla Rivoluzione Culturale) ed icona del laborioso e produttivo popolo cinese, fustigatore dei costumi dei nemici capitalisti.

Quando nell’aprile del 1971, durante i campionati mondiali di disciplina in Giappone, Cowan si attardò con un collega cinese, perdendo l’autobus della sua squadra, trovò un fortunoso passaggio sul torpedone della nazionale cinese, finendo per socializzare con il capitano della squadra (Zedong, appunto).

Il viaggio durò appena quindici minuti, ma fu sufficiente e a far scattare tra i due un nobile sentimento di amicizia.

Zedong donò a Cowan un quadro su seta raffigurante i Monti Huangshan; l’americano, disponendo in quel momento solo di un pettine, contraccambiò nei giorni successivi con una t-shirt con la bandiera della pace e la scritta “Let it be

Tale scambio non passò sott'occhio, immortalato da giornalisti e fotografi che raccolsero le impressioni dei protagonisti con dovizia di particolari.

In particolare la fotografia che ritraeva i due campioni in un atteggiamento così cordiale, quasi fraterno, campeggiò anche su Dakancao, il giornale di riferimento della classe dirigente cinese.

Fu così che la diplomazia colse l’occasione per cercare di forzare quella penosa situazione di stallo nelle relazioni, facendo pervenire al governo cinese una richiesta ufficiale di visita da parte della nazionale statunitense.

Si dice che fu Mao in persona, convinto dalle doti di Zedong, campione saggio, leale ed autorevole, a dare l’imprimatur all'iniziativa e così, in men che non si dica, il 10 aprile 1971, nove giocatori americani, quattro funzionari e due consorti attraversarono un ponte tra Hong Kong e la Cina continentale e passarono una settimana tra partite dimostrative, visite guidate ed eventi mondani.

L’evento aprì la strada alla storica visita ufficiale di Richard Nixon nel febbraio del 1972.

 Due mesi dopo il viaggio di Nixon, dal 12 al 30 aprile 1972, Chuang Tse-tung ricambiò in qualità di capo delegazione della squadra di ping pong cinese.

La cosa rimase così impressa nelle coscienze degli americani che lo scrittore americano Winston Groom ne trasse ispirazione per un memorabile episodio del suo romanzo Forrest Gump, peraltro riportato nella trasposizione cinematografica del 1994 con interprete Tom Hanks.

E i due diretti protagonisti?

Le loro sorti furono molto diverse; Glenn Cowan, scemata l’aura di successo personale, conobbe momenti di dipendenza da droghe ed ansia depressiva.

Pare quasi che aver contribuito con successo al raggiungimento di un fine così alto, avesse fatto perdere di significato ai suoi occhi tutto il resto.

Zedong, da parte sua, dopo aver vissuto, come detto, l’esperienza del carcere per motivi politici, venne riabilitato, assumendo la guida dell’accademia giovanile di tennis tavolo.

Volle recarsi a Los Angeles, non già per abbracciare il suo amico Glenn, ormai morto da tre anni, ma per far visita alla sua anziana madre, cui confessò il rimpianto per non aver avuto più modo di vedersi con lui.

Due giocatori, ai quali -però- il destino non riservò alcuna rivincita.

Game. Set. Match.