Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Questa frase di
Italo Calvino, tratta dal suo romanzo “Il barone rampante”, dà l’idea di
quanto potesse essere stretto il legame tra Marina Abramovich e Ulay (al secolo Frank
Uwe Laysiepen).
Per più di dodici anni, i due, nati lo stesso giorno
–il 30 novembre- ma in anni diversi, costituirono un sodalizio, non solo
artistico, chiamato The Other.
Un termine che evoca con immediatezza l’oscillazione
tra due distinti poli.
Del resto, i vissuti personali dei protagonisti ne
sono eloquente testimonianza.
Lei, di
Belgrado, nipote diretta di un patriarca ortodosso, proclamato santo alla morte.
Lui, figlio
di un gerarca nazista, di Berlino, nel periodo in cui conobbe Marina, era
solito esasperare fisicamente la opposizione tra generi, truccandosi il viso
per metà e giocando con il suo doppio femminile.
Si conoscono e si frequentano ad Amsterdam (che si
trova esattamente a metà strada tra Belgrado e Berlino) e da lì decidono di
girare per tutta Europa su un riciclato furgone Citroen, di quelli in uso alla
polizia francese, al di fuori di ogni convenzione borghese, ponendo le basi per
la definitiva consacrazione del loro personale concetto di Performance art: una costruzione mentale e fisica che l’artista
realizza in un tempo e in uno spazio specifico di fronte a un pubblico che, a
differenza di quanto normalmente avviene, può partecipare in maniera più o meno
consapevole ed esservi coinvolto più o meno attivamente.
Durante una performance, infatti, viene a formarsi
una decisa comunicazione con il creatore dell’opera, in un dialogo focalizzato
proprio sull’interazione che pone artista e pubblico sullo stesso piano,
mescolando a volte i confini dell’uno e dell’altro ruolo.
Un evento di natura effimera, “hic et nunc”, che dura nel tempo di un qui e adesso, non del tutto
prevedibile e perciò irripetibile nella sua unicità e la cui fondamentale
caratteristica, quindi, è l’oscillazione tra un polo e l’altro; sarà la natura
a determinare la piega degli eventi, a dimostrazione di come la realtà sia un
gioco di estremi.
Le loro opere sono la conseguente trasposizione nella
realtà di questi concetti.
In “Rest Energy”,
tra i due si frappone un arco teso che li unisce e, contemporaneamente, li separa.
Lei impugna l’arco, mentre lui tiene tesa la freccia puntata sul suo cuore: una
sola esitazione da parte di lei o di Ulay avrebbe segnato la fine, solo l’arco
li tiene in piedi. I microfoni registrano i battiti del cuore e il respiro
affannato di entrambi: la vita di lei è in balia dell’equilibrio che si crea tra
di loro. La performance dura quattro interminabili minuti, in cui riescono a
rappresentare i concetti di tempo e di fiducia in un unico gesto, come ad
indicare che il segreto di una relazione di coppia è proprio il continuo
bilanciamento dei ruoli.
In “Death
Itself”, Abramovic e Ulay due uniscono le labbra, tappandosi le narici con
filtri per sigarette e respirando l’aria espulsa dall’altro fino a terminare
l’ossigeno a disposizione e poi cadere a terra privi di sensi dopo 17 minuti. Quasi
a voler drammaticamente esplorare la capacità dell’individuo di assorbire e
distruggere la vita altrui.
“Imponderabilia”,
nei locali della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, vede i due
posizionarsi, uno di fronte all’altra all’ingresso della Galleria,
completamente nudi, così costringendo il pubblico ad entrare nel museo
attraversando i loro corpi. Dal momento che lo spazio era strettissimo, i
visitatori non avevano la possibilità di passare guardando dritti davanti a
loro, ma dovevano per forza scegliere se guardare lei o lui, o magari entrambi,
in una metafora neanche troppo astratta sulla vita e sulle sue scelte che partono
dall’intimo più profondo e si manifestano d’impronta, senza pensarci.
Dopo dodici, intensi anni, i due capiscono che si
approssima un punto di svolta della loro unione, e decidono di immortalare alla
loro maniera quel particolare momento, lasciando la regia del tutto alla vita,
che è poi la loro stessa arte.
Organizzano, dopo aver risolto molti ostacoli di
natura legale, una performance, chiamata “The
Lovers: The Great Wall Walk”.
Scenario la Grande Muraglia Cinese, una delle poche
opere umane che si può ammirare anche dallo spazio.
Partendo dai due estremi (Ulay, da Occidente, dal
deserto del Gobi, a rappresentare il fuoco, il maschile; Marina, da Oriente,
dal Mar Giallo, a rappresentare l’acqua, il femminile), si incontreranno, a
metà strada, dopo novanta giorni, in un finale volutamente aperto.
Ed il destino non tarderà ad emettere i suoi
responsi.
Ulay, estroso e carismatico artista, insofferente
alle regole, durante il viaggio intreccerà una relazione con la sua interprete
cinese, che peraltro rimarrà incinta (genitorialità che Marina aveva
consapevolmente declinato in tre distinte occasioni, quale estremo sacrificio
d’amore per la sua arte).
Il finale –a questo punto- è piuttosto prevedibile;
quando i due si incontrano, Ulay chiede a Marina: “Che cosa devo fare adesso?” e lei risponde: “non lo so, ma io me ne vado”.
Scena puntualmente ripresa dalle telecamere della BBC,
che sulla performance stava girando un documentario e che forse auspicava un happy ending o perlomeno un finale
diverso. E’ il 1988.
I due
procederanno autonomamente nella loro brillante vita artistica, regalando al
mondo ulteriori capolavori.
Nel 2010, Marina organizza presso il MoMA di New York
una performance chiamata “The artist is
present”.
L’artista rimane seduta davanti ad un tavolo con di
fronte una sedia vuota.
Per più di dodici anni, i due, nati lo stesso giorno
–il 30 novembre- ma in anni diversi, costituirono un sodalizio, non solo
artistico, chiamato The Other.
Un termine che evoca con immediatezza l’oscillazione
tra due distinti poli.
Del resto, i vissuti personali dei protagonisti ne
sono eloquente testimonianza.
Lei, di
Belgrado, nipote diretta di un patriarca ortodosso, proclamato santo alla morte.
Lui, figlio
di un gerarca nazista, di Berlino, nel periodo in cui conobbe Marina, era
solito esasperare fisicamente la opposizione tra generi, truccandosi il viso
per metà e giocando con il suo doppio femminile.
Si conoscono e si frequentano ad Amsterdam (che si
trova esattamente a metà strada tra Belgrado e Berlino) e da lì decidono di
girare per tutta Europa su un riciclato furgone Citroen, di quelli in uso alla
polizia francese, al di fuori di ogni convenzione borghese, ponendo le basi per
la definitiva consacrazione del loro personale concetto di Performance art: una costruzione mentale e fisica che l’artista
realizza in un tempo e in uno spazio specifico di fronte a un pubblico che, a
differenza di quanto normalmente avviene, può partecipare in maniera più o meno
consapevole ed esservi coinvolto più o meno attivamente.
Durante una performance, infatti, viene a formarsi
una decisa comunicazione con il creatore dell’opera, in un dialogo focalizzato
proprio sull’interazione che pone artista e pubblico sullo stesso piano,
mescolando a volte i confini dell’uno e dell’altro ruolo.
Un evento di natura effimera, “hic et nunc”, che dura nel tempo di un qui e adesso, non del tutto
prevedibile e perciò irripetibile nella sua unicità e la cui fondamentale
caratteristica, quindi, è l’oscillazione tra un polo e l’altro; sarà la natura
a determinare la piega degli eventi, a dimostrazione di come la realtà sia un
gioco di estremi.
Le loro opere sono la conseguente trasposizione nella
realtà di questi concetti.
In “Rest Energy”,
tra i due si frappone un arco teso che li unisce e, contemporaneamente, li separa.
Lei impugna l’arco, mentre lui tiene tesa la freccia puntata sul suo cuore: una
sola esitazione da parte di lei o di Ulay avrebbe segnato la fine, solo l’arco
li tiene in piedi. I microfoni registrano i battiti del cuore e il respiro
affannato di entrambi: la vita di lei è in balia dell’equilibrio che si crea tra
di loro. La performance dura quattro interminabili minuti, in cui riescono a
rappresentare i concetti di tempo e di fiducia in un unico gesto, come ad
indicare che il segreto di una relazione di coppia è proprio il continuo
bilanciamento dei ruoli.
In “Death
Itself”, Abramovic e Ulay due uniscono le labbra, tappandosi le narici con
filtri per sigarette e respirando l’aria espulsa dall’altro fino a terminare
l’ossigeno a disposizione e poi cadere a terra privi di sensi dopo 17 minuti. Quasi
a voler drammaticamente esplorare la capacità dell’individuo di assorbire e
distruggere la vita altrui.
“Imponderabilia”,
nei locali della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, vede i due
posizionarsi, uno di fronte all’altra all’ingresso della Galleria,
completamente nudi, così costringendo il pubblico ad entrare nel museo
attraversando i loro corpi. Dal momento che lo spazio era strettissimo, i
visitatori non avevano la possibilità di passare guardando dritti davanti a
loro, ma dovevano per forza scegliere se guardare lei o lui, o magari entrambi,
in una metafora neanche troppo astratta sulla vita e sulle sue scelte che partono
dall’intimo più profondo e si manifestano d’impronta, senza pensarci.
Dopo dodici, intensi anni, i due capiscono che si
approssima un punto di svolta della loro unione, e decidono di immortalare alla
loro maniera quel particolare momento, lasciando la regia del tutto alla vita,
che è poi la loro stessa arte.
Organizzano, dopo aver risolto molti ostacoli di
natura legale, una performance, chiamata “The
Lovers: The Great Wall Walk”.
Scenario la Grande Muraglia Cinese, una delle poche
opere umane che si può ammirare anche dallo spazio.
Partendo dai due estremi (Ulay, da Occidente, dal
deserto del Gobi, a rappresentare il fuoco, il maschile; Marina, da Oriente,
dal Mar Giallo, a rappresentare l’acqua, il femminile), si incontreranno, a
metà strada, dopo novanta giorni, in un finale volutamente aperto.
Ed il destino non tarderà ad emettere i suoi
responsi.
Ulay, estroso e carismatico artista, insofferente
alle regole, durante il viaggio intreccerà una relazione con la sua interprete
cinese, che peraltro rimarrà incinta (genitorialità che Marina aveva
consapevolmente declinato in tre distinte occasioni, quale estremo sacrificio
d’amore per la sua arte).
Il finale –a questo punto- è piuttosto prevedibile;
quando i due si incontrano, Ulay chiede a Marina: “Che cosa devo fare adesso?” e lei risponde: “non lo so, ma io me ne vado”.
Scena puntualmente ripresa dalle telecamere della BBC,
che sulla performance stava girando un documentario e che forse auspicava un happy ending o perlomeno un finale
diverso. E’ il 1988.
I due
procederanno autonomamente nella loro brillante vita artistica, regalando al
mondo ulteriori capolavori.
Nel 2010, Marina organizza presso il MoMA di New York
una performance chiamata “The artist is
present”.
L’artista rimane seduta davanti ad un tavolo con di
fronte una sedia vuota.
Ogni visitatore può sedervisi e condividere, in
silenzio, con lei impassibile, due minuti di tempo.
Nel corso della performance si alternano, per tre
mesi, per sette ore al giorno, migliaia di persone.
Molti escono in lacrime. Marina, pur nella sua
profonda ed intensa interpretazione, non muove ciglio.
Ma un giorno, a sorpresa, arriva Ulay, il suo “The
Other”: i due non si vedevano da quasi 23 anni, dal loro addio sulla Muraglia
Cinese.
Stavolta è Marina a commuoversi; sconvolgendo il concept dell’opera, tende le mani ad
Ulay, crea un contatto fisico con lui, immediatamente recepito.
I due si sorridono, si parlano fitto, visibilmente e
reciprocamente coinvolti.
I due minuti canonici sembrano interminabili.
I due opposti, per un momento, sono nuovamente
un’unità.
Per un momento, però.
Perché la vita -che è other- riserva un finale diverso anche in quest’occasione.
Nei mesi successivi Ulay conviene in giudizio Marina
per ottenere la sua quota di royalties per alcune delle loro comuni opere (che complessivamente
vanno sotto il nome di Relation Works), riuscendo a percepire la somma di
250mila euro.
L’unità si
sdoppia nuovamente in due parti estremi conflittuali.
A marzo del
2020, la morte di Ulay –che nel frattempo riuscì a trasformare la sua malattia
in un artistico strumento di condivisione realizzando un corposo e crudo
documentario dal titolo “Project Cancer”-
ha solo fisicamente diviso quelle due metà, la cui sinergia, a volte
inspiegabile, per quanto di fatto precaria, ha comunque dimostrato come un
rapporto si basi su affinità elettive che prescindono del tutto dai comuni
concetti.

