25.6.20

It’s nice to have a home where your guests feel confortable

In tempi in cui il fenomeno Cosplay è divenuto planetario, emulare i propri beniamini, protagonisti di manga, anime o videogiochi, è una circostanza del tutto ricorrente che non sconvolge più nessuno.
Nel variegato novero dei personaggi frutto della fantasia spiccano i Peanuts; tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo letto e fantasticato leggendo il famosissimo fumetto ideato dall’indimenticato Charles Schulz. 
La diffusione del Cosplay, come a noi noto, dalle prime origini, forse statunitensi, ha ricevuto decisivo impulso in Giappone.
E proprio in Giappone, dopo un museo dedicato a Snoopy a Tokyo ed un ristorante che si chiama “Peanuts diner” a Yokohama, gli amanti dei Peanuts hanno trovato anche un tetto: il Peanuts Hotel di Kobe.
L'idea dell'albergo ha preso spunto proprio da una striscia storica, quella in cui il leggendario “cane non cane” di Charlie Brown decide di ospitare nella sua famosa cuccia uno stormo di uccelli e proclama: «È bello avere una casa in cui i tuoi ospiti si sentano a proprio agio».
Si tratta di una struttura di tre piani con 18 camere, bar e ristorante, tutto rigorosamente a tema, con pareti tappezzate di immagini e frasi fulminanti. 
Ciascuno dei tre piani ha un tema: immaginazione, felicità, amore.
La notizia in sé lascerebbe pensare alla solita astuzia commerciale di alcuni imprenditori che sfruttano un marchio di sicuro successo per ottenere profitti notevoli.
Potrà anche esser vero, ma val bene ribadire il concept ispiratore dell’albergo “È bello avere una casa in cui i tuoi ospiti si sentano a proprio agio”.
Un frase che condensa solidarietà, concordia e condivisione.
Il tradizionale senso di ospitalità giapponese –legata a secolari rituali- che si coniuga con la praticità in puro stile yankee sullo sfondo di un cagnolino di fantasia, il cui merito è quello di riuscire a coinvolgere ed accomunare tra loro tante persone di differenti latitudini e culture.

11.6.20

Love is in the air



Sono scorsi fiumi di inchiostro, per opera di autorevolissimi studiosi, nel tentativo di descrivere e comprendere un fenomeno così complesso come quello del tifo calcistico.
Si è pertanto parlato di senso di comunità, di rito laico di massa, di appartenenza, di aspirazione ad un ideale, di comunanza gergale; probabilmente tutto ciò, ma anche altro: siamo al cospetto di un sentimento, in quanto tale, difficilmente racchiudibile in categorie concettuali.
Sul tema, una particolare menzione, fra tutti, merita il film cult di Nick Hornby “Febbre a 90°” -peraltro tratto dal suo libro omonimo- che analizza gli aspetti sociologici del tifo calcistico.
E’ un fedele ritratto psicologico di coloro che ogni fine settimana soffrono e gioiscono per le sorti della propria squadra, cui fanno da contraltare i “benpensanti”, i non appassionati, con le loro ragionevoli remore e gli opportuni distinguo.
Per non tacer del sociologo irlandese, Benedict Anderson che, nell’occuparsi della formazione delle ideologie nazionalistiche, ha teorizzato l’esistenza di una “Comunità immaginata”, fondata, non già su una relazione personale diretta tra i suoi membri, ma solo sulla percezione di essere parte di una comunità di affini, affinità che può essere la stessa lingua, una religione uguale oppure un senso comune del destino che associa gli individui.
Proprio a proposito del destino, è convinzione diffusa che non sia il tifoso a decidere la squadra del cuore, bensì quest’ultima –fatalmente- a sceglierlo, certa che giammai vivrà l’esperienza dell’abbandono, atteso che una persona può cambiare orientamento politico, o addirittura religioso, professione, condizione economica, gusti e stili di vita, ma non l’appartenenza alla squadra del cuore.
A dirla con le parole di Anderson, quindi, le tifoserie calcistiche, al pari di una “comunità immaginata”, cementano la loro unione, prescindendo dalla conoscenza diretta, in un flusso di percezioni e di passione comune, che si trasforma in appartenenza.
E tale connotazione è parte essenziale nell'animo di un tifoso, che la porta con sè tutti i giorni della propria vita, anche oltre, ed in ogni circostanza.
La storia del sig. Vicente Navarro Aparicio, nato a Valencia nel 1928 si inserisce a pieno titolo nel solco di quella comune percezione che genera connessione tra persone.
Il sig. Vicente, operaio, cieco da un occhio dalla nascita, perse completamente la vista all’età di 54 anni, nel 1985, senza tuttavia che ciò potesse impedirgli di seguire la sua squadra del cuore, il Valencia, allo stadio Mestalla, decidendo di mantenere il suo abbonamento ogni stagione.
Quando divenne completamente cieco decise solo di cambiare posizione sugli spalti: dal Settore 16, più lontano, passò alla Tribuna Centrale, per essere più vicino al prato e “sentire” meglio la gara, "percepire il Valencia" ("sentir" in spagnolo).
Fila numero 15, posto 164; dal quel posto continuò a seguire la partita con suo figlio, che gli raccontava quello che succedeva in campo, fino alla sua morte avvenuta nel 2016. Era il socio numero 18 per anzianità del Valencia ed era conosciuto da tutta la comunità di tifosi Blanquinegres.
Dal marzo del 2019 il suo seggiolino è occupato per sempre: il Valencia, nell’anno del centenario, ha deciso di rendere omaggio a lui, ai non vedenti e soprattutto alla passione dei tifosi. Al posto 164 della fila 15 della tribuna centrale si erge infatti una scultura in bronzo nella postura di un uomo con bastone mentre guarda la partita.  
Il club ha voluto dedicare al suo tifoso questa frase: “Vincent rappresenta la forma più pura dell'essere Valencianisti”.
Una passione pura, trasparente ed immateriale.