30.4.20

Natura non facit saltus

Il world wide web, letteralmente “ragnatela globaleè un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono usare per leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet.

Solo per fare un esempio, il blog -contrazione di web-log, diario in rete- ne è una delle molteplici applicazioni.

Il primo sito web venne alla luce il 6 agosto del 1991, grazie all’informatico inglese Tim Berners-Lee che sviluppò l’idea di base, nata al CERN di Ginevra, di condividere, a fini di ricerca, il maggior numero possibile di informazioni tra scienziati di tutto il mondo accomunati da progetti di ricerca.

Attraverso la creazione del primo sito web si è mosso il primo passo per consentire la fruizione di ogni tipo di contenuti ad una generalità indifferenziata di persone.

Una rivoluzione tecnologica così innovativa, frutto del genio fecondo di menti elette, che pare creata dal nulla.

Non è così!

Un simile sistema di comunicazione, infatti, esiste da sempre in natura.

Un’importante ricerca di Suzanne Simard, ecologa della Columbia University, successivamente approfondita da un team tutto al femminile di ricercatrici italiane, ha infatti permesso di scoprire l’esistenza di un’associazione simbiotica, detta micorriza, tra funghi ed apparato radicale degli alberi.

In buona sostanza, il fungo riesce a trarre dall’albero, e dalla sua opera di fotosintesi, i nutrimenti che, per la sua fisiologia, non potrebbe autonomamente acquisire; dal suo canto, l’albero madre, o anche albero hub (mutuando dal linguaggio informatico), utilizza la rete sotterranea di ife fungine per connettersi ad alberi figli posti anche a grande distanza, trasmettendo loro, non solo nutrimento, ma importanti informazioni sulla chimica del sottosuolo, utili all’adattamento e a fronteggiare eventi potenzialmente sfavorevoli alla vegetazione (basti pensare ai mutamenti climatici, quasi spesso determinati dall’uomo, forieri di danni a volte esiziali all’ambiente).

Tale rete fungina si estende lungo superfici enormi ed ha vita propria ed indipendente rispetto alle piante che nutre.

Esperimenti sul campo hanno dimostrato che, anche cinque mesi dopo la rimozione delle piante, la rete è capace di mantenere la sua vitalità, potendo, addirittura, favorire nuove simbiosi con altre piante.

Tale fenomeno, vero e proprio network di connessioni, internet della natura, o -come molti lo definiscono- wood wide web, induce a riflettere, non solo su quanto labile e non del tutto scontata possa essere la convenzionale linea di confine tra ciò che è reale e virtuale, ma anche su come organismi, talvolta troppo in fretta -e pertanto erroneamente- bollati come vegetali inerti, siano, viceversa, in grado di sviluppare dinamiche e proporre modelli comunicativi assai più complessi ed efficaci rispetto ad altri esseri viventi.

Errore in cui si è indotti se ci si ferma ad osservare unicamente la realtà esteriore come appare ai propri occhi, senza considerare che, al di sotto della superficie, con le radici, si può sviluppare un mondo.

Un paradigma pedagogico su come a volte ci si relaziona con il mondo esterno.


16.4.20

...è bello per noi stare qui


Un’opera d’arte, autentica trasfigurazione del linguaggio comunicativo del suo autore, trasmette -per ciò solo-  infinite sensazioni, tante quanti sono i suoi fruitori e le loro rispettive sensibilità.
In alcuni casi estremi, può addirittura provocare la c.d. sindrome di Stendhal: una patologia psicosomatica che si scatena al cospetto di un'opera d'arte particolarmente evocativa e si manifesta come una sensazione di malessere diffuso, mentre a livello psichico porta a sviluppare un vago senso di irrealtà, ed un improvviso bisogno di tornare alla propria terra e di parlare la propria lingua.
A maggior ragione, avere la possibilità di vedere l’opera in fieri, consente di cogliere aspetti legati al suo autore, altrimenti impossibile diversamente.
Nel caso del “Ballo al Moulin Rouge” del 1890 (da alcuni critici chiamato “La Danza”, o ancora “Valentin Le Desossè addestra le nuove leve”), da molti considerata uno dei capolavori della produzione artistica di Henry de Touluse-Lautrec, tale privilegio è accordato.
Il quadro è conservato al Museo di Philadelphia, ma non è difficile reperire, un po’ dappertutto, una riproduzione fotografica che raffigura Toulouse-Lautrec alle prese con l’opera non ancora terminata, intento a dare i tocchi di contorno che ritiene necessari.
Egli è faticosamente seduto in cima ad uno sgabello; la sua picnodisostosi –che successivamente, in linguaggio medico, sarà chiamata sindrome di Toulouse Lautrec- ne aveva fatto un uomo dal tronco di adulto ma su gambe da fanciullo.
Al tempo stesso, però, il pittore sembra entrare a far parte del gruppo di quei soggetti che sta  raffigurando, e non è una mera osservazione di fatto: Henry de Touluse-Lautrec visse le mille contraddizioni che il destino gli aveva riservato, affrontandole con ironia e coraggio, senza cedere alla disperazione che può trasformarsi in follia (come per il suo compagno di bottega in giovinezza Vincent), disdegnando l’autocommiserazione.
Riuscì nel suo intento cercando il pieno contatto con un’umanità in astratto a lui lontana per tanti motivi. Pur essendo di nobilissimo lignaggio, infatti, scelse di essere parte viva di un coacervo di ultimi: artisti, saltimbanchi, donne di piacere, di cui fu iconico cantore della vita quotidiana e dai quali fu vicendevolmente ed amorevolmente considerato, al netto di ogni distinzione di censo o di aspetto fisico.  
Il quadro –commissionato dai gestori del Moulin Rouge per pubblicizzare il locale, al cui interno rimase per alcuni anni- è infatti tutto questo: una vivida espressione di quella variegata umanità, in cui l’artista è esso stesso parte di ciò che raffigura, quasi che l’opera fosse la cornice del suo stesso essere.
Ed il suo intimo approcciarsi alla realtà di tutti i giorni riuscì a far elevare a rango di opere d’arte anche un comune mezzo di comunicazione fino a quel momento poco considerato, le affiches pubblicitarie, facendone un precursore della pop art.
Ma questo è un altro discorso…


2.4.20

Per chi suona la campana


Si è soliti definire il nostro Belpaese, come la terra dei mille campanili, espressione di un’umanità semplice e variegata al tempo stesso.
L’iconografia che plasticamente ci riporta a questa metafora è naturalmente legata a ciò che il campanile rappresenta: un luogo di raccolta di tante persone che avviene grazie al suono di uno strumento a noi assolutamente familiare: la campana.
Sull’origine, anche etimologica del termine, non vi è dubbio alcuno; pur riscontrandosi la sua presenza nell’antico Oriente circa cinquemila anni prima di Cristo, la campana, come noi oggi la concepiamo, fu descritta da S. Paolino da Nola, che ne introduce il concetto relativamente alla produzione, da utilizzare in campo religioso, dei cosiddetta “Vasa campana” in bronzo (letteralmente “vasi di bronzo di origine della Campania”).
Tuttavia, al netto di interessanti e stimolanti ricerche sulle origini dello strumento, val piuttosto la pena soffermarsi su ciò che il suono di una campana può rappresentare per ognuno di noi.
E’ innegabile che ogni persona possa legare un ricordo della sua esistenza, bello o brutto non importa, a dei rintocchi di campana.
Personalmente, mi sovviene il giorno della mia laurea, sul finire del mese di marzo di venticinque anni fa; il suono delle campane che chiamavano a raccolta i fedeli di una Chiesa, fisicamente contigua all'edificio che ospitava l’università, nell'esatto momento della proclamazione.
Ciò induce, conseguenzialmente un altro spunto di riflessione, legato alla sua poliforme capacità comunicativa.
Se, infatti, la campana, in epoche più risalenti, ma ancor oggi, in termini tradizionali, si è esplicata come forma comunicativa, per così dire esterna”, vale a dire ha facilitato la comunicazione tra più persone di un dato o un evento, sviluppando la condivisione tra soggetti fisicamente distanti tra loro e veicolando messaggi di varia natura, è altrettanto interessante soffermarsi su quanto la campana, il suo suono, le sue vibrazioni, possa introdurre e facilitare una via comunicativa, per così dire, interna.
Sono innumerevoli e scientificamente validati studi sugli effetti della cosiddetta “suono terapia” che operano direttamente e quasi esclusivamente nel foro interno del suo ascoltatore.
Stiamo parlando di strumenti che, seppur fisicamente differenti, nella forma fisica, alla campana come istintivamente siamo portati ad immaginarla, ne sono del tutto analoghi poiché producono suoni acusticamente accostabili.
La campana tibetana, o il gong, le cui onde sonore sono del tutto assimilabili a quelle della campana tradizionale, recano un messaggio ontologicamente differente; alcuni addirittura le accostano ad una forma di yoga del suono.
Ecco quindi che uno strumento, di antichissima origine, si rivela a sua volta capace di far vibrare le corde del suo uditore –di renderlo esso stesso uno strumento- sia dall’interno, che dall’interno.