5.3.20

Smoke gets in your eyes


Se si parla di indiani nativi d’America, i cosiddetti pellerossa, probabilmente i più li immagineranno intenti nella loro peculiare attività: fare segnali di fumo.
I segnali di fumo sono sicuramente tra le più antiche forme di comunicazione, affondando nella notte dei tempi, tant’è che se ne dà per certo l’utilizzo da parte dello storico greco Polibio e si rinvengono testimonianze tra i Guardiani della Grande Muraglia che così riuscivano a connettersi anche a grandi distanze.
La notevole produzione cinematografica o fumettistica però associa tale tecnica, per quanto semplice ma frutto di consolidata perizia, agli indiani.
Si dava fuoco a stoppie (o a del molto più prosaico sterco di bisonte) ravvivando il focolaio con erba ancora verde, immediatamente ricoprendolo per intero con delle coperte, salvo poi scoprirlo per far sì che si potessero levare altissime e sottili colonne di fumo o morbide nuvolette.
Le dimensioni erano determinate dal tempo e dalle modalità di rilascio della superfice coprente.
Il “telegrafo degli indiani”, per ovvi motivi, in uso unicamente nelle ore diurne, aveva la sua indubbia utilità, atteso che poteva essere scorto a distanze ragguardevoli da un occhio esperto. E ciò spesso valeva a salvar loro la vita, perché normalmente avvisava della presenza del nemico.
E chi se non, manco a dirlo, i soldati bianchi, quelli “buoni” (quelli del Generale Custer, sterminatori di bisonti e non solo)?
Esso nasceva comunque da una esigenza pratica.
Il ragguardevole numero di dialetti in uso non consentiva dialoghi efficaci tra appartenenti a tribù diverse, tant’è che per comunicare a distanze ravvicinate essi utilizzavano un articolatissimo linguaggio dei segni, mentre affidavano al vento ed alla natura quei pensieri capaci di unire persone sconosciute e distanti anche molti chilometri.

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