19.3.20

Il primo respiro



E’ il titolo di un docu-film francese del 2007 del cineasta francese Gilles De Maistre.
La vicenda narrativa si svolge, per poetica intuizione del suo autore, in un’unica giornata: il ventinove marzo 2006, giorno in cui si è verificata un’eclisse solare totale visibile nel nostro pianeta.
Descrive i momenti relativi a dieci parti in contesti che più differenti tra loro non potrebbero essere: si passa da un parto in piscina a quello all’interno di una comune o in una super attrezzata clinica.
Disparati sono anche i contesti geografici; dalla Vecchia Europa al Sud Est Asiatico o al Sudamerica.
Ugualmente sono diversi gli approcci all’evento nascita, retaggio delle rispettive culture e tradizioni popolari.
Ma c’è una cosa che accomuna, pressoché scientificamente, tutte le protagoniste di queste vicende ed è lo sguardo delle puerpere quando viene loro avvicinato il neonato che emette il primo vagito.
E’ in quel preciso istante che tra madre e figlio si crea quel legame comunicativo che non cesserà mai.
Si creano le condizioni per ciò che gli esperti definiscono imprinting, vale a dire la trasmissione, mediante attaccamento da madre a figlio, del corretto bagaglio utile al sano sviluppo del neonato.  
Legame che Pier Paolo Pasolini, parlando di Susanna Colussi, sua madre, seppe da par suo racchiudere nei versi dell’ode, “Supplica a mia madre”, in cui il poeta, tra l’altro, afferma: “Tu sei sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore”.

5.3.20

Smoke gets in your eyes


Se si parla di indiani nativi d’America, i cosiddetti pellerossa, probabilmente i più li immagineranno intenti nella loro peculiare attività: fare segnali di fumo.
I segnali di fumo sono sicuramente tra le più antiche forme di comunicazione, affondando nella notte dei tempi, tant’è che se ne dà per certo l’utilizzo da parte dello storico greco Polibio e si rinvengono testimonianze tra i Guardiani della Grande Muraglia che così riuscivano a connettersi anche a grandi distanze.
La notevole produzione cinematografica o fumettistica però associa tale tecnica, per quanto semplice ma frutto di consolidata perizia, agli indiani.
Si dava fuoco a stoppie (o a del molto più prosaico sterco di bisonte) ravvivando il focolaio con erba ancora verde, immediatamente ricoprendolo per intero con delle coperte, salvo poi scoprirlo per far sì che si potessero levare altissime e sottili colonne di fumo o morbide nuvolette.
Le dimensioni erano determinate dal tempo e dalle modalità di rilascio della superfice coprente.
Il “telegrafo degli indiani”, per ovvi motivi, in uso unicamente nelle ore diurne, aveva la sua indubbia utilità, atteso che poteva essere scorto a distanze ragguardevoli da un occhio esperto. E ciò spesso valeva a salvar loro la vita, perché normalmente avvisava della presenza del nemico.
E chi se non, manco a dirlo, i soldati bianchi, quelli “buoni” (quelli del Generale Custer, sterminatori di bisonti e non solo)?
Esso nasceva comunque da una esigenza pratica.
Il ragguardevole numero di dialetti in uso non consentiva dialoghi efficaci tra appartenenti a tribù diverse, tant’è che per comunicare a distanze ravvicinate essi utilizzavano un articolatissimo linguaggio dei segni, mentre affidavano al vento ed alla natura quei pensieri capaci di unire persone sconosciute e distanti anche molti chilometri.