12.12.19

Parole di pietra


Nel libro “Le parole sono pietre”, Carlo Levi utilizza questa definizione quando descrive, come meglio non si potrebbe, la mamma di uno “scomodo” sindacalista siciliano, Salvatore Carnevale, che negli anni ‘50 pagò con la vita la sua voglia di ribellarsi ad un sistema palesemente iniquo ed inumano.
La vicenda descritta esorta a riflettere sulla potenza comunicativa delle parole, capaci di risvegliare masse oppresse e rassegnate da un torpore quasi mortale, così spingendole a rivendicare diritti sacrosanti.
In buona sostanza, quel che può sembrare un monumento all’irrilevanza, uno sfogo di bocca ad un non meglio precisato furore, contribuisce, in determinati frangenti, ad aprire scenari inimmaginabili.
Ciò doverosamente premesso, può essere interessante rovesciare la prospettiva: affidare un messaggio comunicativo non verbale, ma ugualmente dirompente -come una pietra appunto- a ciò che di pietra è fatto.
Sto naturalmente parlando dei graffiti murari, prius logico ed arcano progenitore della street art che molti appassiona.
Ne esistono rappresentazioni lungo tutto l’arco della storia: dai graffiti delle grotte di Altamira del paleolitico superiore, prima ancora che l’umanità riuscisse a strutturare un linguaggio, alle epigrafi greche e romane, con i loro particolari registri linguistici, alle pasquinate, i foglietti di feroce satira che dal XVI secolo, per molti decenni, “animarono” la statua (e non solo quella) posta all’angolo di Palazzo Braschi a Roma, ancora agli slogan figli del maggio francese sui muri del ’68: “Sous les pavés, la plage” (Sotto i sampietrini c'è la spiaggia), “Il est interdit d'interdire” (Vietato vietare).
Palese filo conduttore non è solo oggettivo -messaggio che scuote ed emoziona- ma anche soggettivo; non è infatti possibile conoscere l’identità precisa degli autori di graffiti.
Chi mai potrebbe rivendicare la paternità della scritta apparsa sul muro del cimitero di Napoli dopo la conquista del primo scudetto della sua storia calcistica: “che vi siete persi”?
A questa costante pare non esimersi neppure l’evoluzione 2.0 dei graffiti: la street art.
Se è pur vero, nondimeno, che conosciamo ed apprezziamo per la loro opera molti writers, alcuni dei quali si celano unicamente per motivi meramente legali, atteso che la legislazione vigente in molti paesi considera tale espressione d’arte un comportamento penalmente rilevante, è altrettanto vero che l’identità di Banksy, universalmente riconosciuto uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, è avvolta nel mistero.
Ed allora verrebbe quasi di pensare che un graffito, a prescindere da chi materialmente lo esegua, sia permeato da una peculiare energia, che vi preesiste.
E colui che in quel momento lo rende visibile ha il merito, certo non secondario, di averla saputa captare, mettendola a disposizione di chi, anche distrattamente o controvoglia, a sua volta, la condividerà, vivificherà ed amplificherà.

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