Nel libro “Le parole sono pietre”, Carlo Levi
utilizza questa definizione quando descrive, come meglio non si potrebbe, la
mamma di uno “scomodo” sindacalista siciliano, Salvatore Carnevale, che negli
anni ‘50 pagò con la vita la sua voglia di ribellarsi ad un sistema palesemente
iniquo ed inumano.
La vicenda descritta esorta a riflettere sulla potenza comunicativa delle
parole, capaci di risvegliare masse oppresse e rassegnate da un torpore quasi
mortale, così spingendole a rivendicare diritti sacrosanti.
In buona sostanza, quel che può sembrare un monumento all’irrilevanza,
uno sfogo di bocca ad un non meglio precisato furore, contribuisce, in
determinati frangenti, ad aprire scenari inimmaginabili.
Ciò doverosamente premesso, può essere interessante rovesciare la prospettiva:
affidare un messaggio comunicativo non verbale, ma ugualmente dirompente -come
una pietra appunto- a ciò che di pietra è fatto.
Sto naturalmente parlando dei graffiti murari, prius logico ed arcano progenitore della street art che molti appassiona.
Ne esistono rappresentazioni lungo tutto l’arco della storia: dai
graffiti delle grotte di Altamira del paleolitico superiore, prima ancora che
l’umanità riuscisse a strutturare un linguaggio, alle epigrafi greche e romane,
con i loro particolari registri linguistici, alle pasquinate, i foglietti di
feroce satira che dal XVI secolo, per molti decenni, “animarono” la statua (e
non solo quella) posta all’angolo di Palazzo Braschi a Roma, ancora agli slogan
figli del maggio francese sui muri del ’68: “Sous les pavés, la plage” (Sotto i sampietrini c'è la spiaggia), “Il est interdit d'interdire” (Vietato
vietare).
Palese filo conduttore non è solo oggettivo -messaggio che scuote ed
emoziona- ma anche soggettivo; non è infatti possibile conoscere l’identità precisa
degli autori di graffiti.
Chi mai potrebbe rivendicare la paternità della scritta apparsa sul muro
del cimitero di Napoli dopo la conquista del primo scudetto della sua storia
calcistica: “che vi siete persi”?
A questa costante pare non esimersi neppure l’evoluzione 2.0 dei
graffiti: la street art.
Se è pur vero, nondimeno, che conosciamo ed apprezziamo per la loro opera
molti writers, alcuni dei quali si celano unicamente per motivi meramente
legali, atteso che la legislazione vigente in molti paesi considera tale
espressione d’arte un comportamento penalmente rilevante, è altrettanto vero
che l’identità di Banksy, universalmente riconosciuto uno dei suoi più
autorevoli rappresentanti, è avvolta nel mistero.
Ed allora verrebbe quasi di pensare che un graffito, a prescindere da chi
materialmente lo esegua, sia permeato da una peculiare energia, che vi
preesiste.
E colui che in quel momento lo rende visibile ha il merito, certo non
secondario, di averla saputa captare, mettendola a disposizione di chi, anche
distrattamente o controvoglia, a sua volta, la condividerà, vivificherà ed
amplificherà.

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