26.12.19

E il naufragar m'è dolce in questo mare


Il filosofo greco Teofrasto intorno al 310 a.C. fu il primo a spedire un messaggio in bottiglia, per provare che il mar Mediterraneo fosse formato dall’afflusso delle acque dell’Atlantico.
A prescindere da qualsivoglia finalità scientifica, il messaggio in bottiglia ha sempre rappresentato un topos, magnificato nell’arte, nella letteratura, al cinema, come in musica: sto pensando ad Edgar Allan Poe (Il manoscritto trovato in una bottiglia - 1831) e Jules Verne (I figli del capitano Grant – 1868), al film “Le parole che non ti ho detto” con Kevin Costner che è incentrato su una love story nata da una lettera in una bottiglia ritrovata per caso su una spiaggia ed al gruppo dei “Police” che ci scrisse addirittura una canzone di successo.
            La storia ci ha regalato significative storie, molto spesso legate ad eventi drammatici.
            Un gesto dunque anacronistico? Tutt’altro, poichè, al giorno d’oggi il messaggio, una volta affidato al mare in senso fisico, è funzionale o, mutatis mutandis, si trasfigura in quel mare magnum che è il web.
            Nel primo caso è sintomatico il caso di Max Vredenburgh, studente del Massachusetts che a, 10 anni, aveva affidato a una bottiglia e al mare di Long Beach, cittadina di Rockport, a nord di Boston, nell'agosto del 2010 un messaggio, sperando di ottenere una risposta. Che arrivò nove anni dopo quando era studente universitario, con una lettera di un tal G. Dubois che aveva trovato la bottiglia su una spiaggia sulla costa atlantica nel sud della Francia. Il giovane studente statunitense pubblicò poi le foto di quella lettera di risposta su Twitter (retwittata più di 136mila volte).
            Qualcuno scrisse tra i commenti: “Penso che tutto accada per una ragione”.
            Nel secondo caso, i c.d. fenomeni virali, sono piuttosto ricorrenti.
Tra i più noti, quello con hashtag #RitroviamoCiccio, una vera e propria mobilitazione social alla ricerca del peluche del bimbo perso sul treno.
            Nacque nel luglio di quest’anno da un tweet di un’esperta di design, Chiara Alessi, in cui si chiedeva una mano per ritrovare il pupazzo di pezza del figlioletto, il peluche Ciccio, perso durante un viaggio in treno. In breve circa 1500 persone risposero all’appello, cui non rimase insensibile neanche Trenitalia.
            E se anche il risultato finale, nonostante i molti sforzi profusi, non fu quello sperato, la stessa Chiara commentò che, probabilmente era destino che Ciccio dovesse andare, ma che tutta la vicenda aveva insegnato come una semplice bambola di pezza, unita ad una richiesta d’aiuto aveva avuto la capacità di smuovere 1500 persone. uniti dalla solidarietà e dalla malcelata voglia di raggiungere un lieto fine.
Ma ancor più significativa, forse, è la storia di “bottle man”, al secolo Harold Hackett, un signore canadese di 62 anni che, nell'epoca dei social network e dei canali televisivi interattivi, è riuscito a dimostrare quanto possa essere al pari efficace come strumento di comunicazione il messaggio nella bottiglia abbandonato tra le onde.
A partire dal maggio del 1996 Hackett ha liberato nelle acque dell'Atlantico migliaia di bottiglie contenenti un messaggio, ottenendone risposte prodigiosamente provenienti da tutto il mondo: Africa, Russia, Regno Unito, Scozia, Francia, Bahamas...
E per rendere il suo esperimento assolutamente analogico, Hackett non ha inserito nei suoi messaggi nè il suo numero di telefono nè il suo indirizzo e-mail, ma solo quello postale. In questo modo si è assicurato che tutte le risposte gli arrivassero per lettera.
Ogni bottiglia è numerata, così Harold sa a quale dei suoi messaggi si riferisce la risposta: alcune bottiglie sono state in balia delle onde per più di 13 anni prima di essere trovate da qualcuno.
            Tutto nacque un giorno in cui, intento in compagnia del cognato a pescar tonni, Hackett pensò di ingannar l’attesa con del succo di mirtillo, mettendo poi all’interno della bottiglia vuota un bigliettino bianco con il suo indirizzo e gettando in acqua la bottiglia, sigillata con del nastro isolante.
Ricevette tre mesi dopo, una lettera di risposta dalle Isole Maddalena e decise di rispondere ad ogni lettera ricevuta da chi avesse trovato i suoi messaggi in bottiglia, sparsi random un po' ovunque nel modo sopra descritto.
          Il gran numero di bottiglie liberate in acqua gli costò anche la minaccia di sanzioni legali, tant’è che qualche benpensante consigliò, per quieto vivere, di procurarsi un computer onde continuare nella sua “attività”.
Harold non lo fece mai, poiché apprezzava le vibrazioni che percepiva avvicinandosi alla sua cassetta postale in presenza di una lettera di risposta.
Ed un bel giorno bussò alla porta della sua abitazione, sita nell’Isola del Principe Edoardo, la più piccola provincia del Canada, una coppia olandese che era giunta a fargli visita, raggiungendo con il proprio camper quel puntino lontano sulla cartina geografica, probabilmente sconosciuto prima di allora.
Penso proprio che tutto accada per una ragione.



12.12.19

Parole di pietra


Nel libro “Le parole sono pietre”, Carlo Levi utilizza questa definizione quando descrive, come meglio non si potrebbe, la mamma di uno “scomodo” sindacalista siciliano, Salvatore Carnevale, che negli anni ‘50 pagò con la vita la sua voglia di ribellarsi ad un sistema palesemente iniquo ed inumano.
La vicenda descritta esorta a riflettere sulla potenza comunicativa delle parole, capaci di risvegliare masse oppresse e rassegnate da un torpore quasi mortale, così spingendole a rivendicare diritti sacrosanti.
In buona sostanza, quel che può sembrare un monumento all’irrilevanza, uno sfogo di bocca ad un non meglio precisato furore, contribuisce, in determinati frangenti, ad aprire scenari inimmaginabili.
Ciò doverosamente premesso, può essere interessante rovesciare la prospettiva: affidare un messaggio comunicativo non verbale, ma ugualmente dirompente -come una pietra appunto- a ciò che di pietra è fatto.
Sto naturalmente parlando dei graffiti murari, prius logico ed arcano progenitore della street art che molti appassiona.
Ne esistono rappresentazioni lungo tutto l’arco della storia: dai graffiti delle grotte di Altamira del paleolitico superiore, prima ancora che l’umanità riuscisse a strutturare un linguaggio, alle epigrafi greche e romane, con i loro particolari registri linguistici, alle pasquinate, i foglietti di feroce satira che dal XVI secolo, per molti decenni, “animarono” la statua (e non solo quella) posta all’angolo di Palazzo Braschi a Roma, ancora agli slogan figli del maggio francese sui muri del ’68: “Sous les pavés, la plage” (Sotto i sampietrini c'è la spiaggia), “Il est interdit d'interdire” (Vietato vietare).
Palese filo conduttore non è solo oggettivo -messaggio che scuote ed emoziona- ma anche soggettivo; non è infatti possibile conoscere l’identità precisa degli autori di graffiti.
Chi mai potrebbe rivendicare la paternità della scritta apparsa sul muro del cimitero di Napoli dopo la conquista del primo scudetto della sua storia calcistica: “che vi siete persi”?
A questa costante pare non esimersi neppure l’evoluzione 2.0 dei graffiti: la street art.
Se è pur vero, nondimeno, che conosciamo ed apprezziamo per la loro opera molti writers, alcuni dei quali si celano unicamente per motivi meramente legali, atteso che la legislazione vigente in molti paesi considera tale espressione d’arte un comportamento penalmente rilevante, è altrettanto vero che l’identità di Banksy, universalmente riconosciuto uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, è avvolta nel mistero.
Ed allora verrebbe quasi di pensare che un graffito, a prescindere da chi materialmente lo esegua, sia permeato da una peculiare energia, che vi preesiste.
E colui che in quel momento lo rende visibile ha il merito, certo non secondario, di averla saputa captare, mettendola a disposizione di chi, anche distrattamente o controvoglia, a sua volta, la condividerà, vivificherà ed amplificherà.