29.5.25

Legati da un’eco

 


Nelle città, tra un semaforo e una finestra accesa, circolano storie che nessuno ha mai davvero confermato, ma che tutti conoscono. Le chiamano leggende metropolitane, come se fossero fiabe moderne per anime cresciute troppo in fretta. Ma a ben guardare, non sono favole. Sono verità non documentate. Eppure, così testarde da non scomparire.

Sono le storie che qualcuno ha sentito raccontare da un amico, “che conosceva uno che c’era”. Quelle che si sussurrano nelle notti d’autunno, o che ritornano a galla quando ci si perde tra i rumori di una città in dormiveglia.

A Roma, c’è chi giura di aver visto l’anima del Marchese del Grillo salire i gradini di Palazzo Madama, ridendo ancora delle sue beffe. A Milano, nei sottopassi della stazione Centrale, si racconta di un uomo in impermeabile che offre ai passanti un biglietto del treno verso una città che non esiste più.

Ci sono anche storie più recenti, nate negli anni delle autostrade e degli ascensori, delle periferie e dei centri commerciali. La ragazza in abito bianco che chiede un passaggio e poi sparisce all’improvviso sul sedile posteriore. Il bambino che svanisce nel nulla mentre la madre compra il latte, e che si dice venga trovato, anni dopo, a pochi isolati da lì. Il killer nascosto nel sedile posteriore dell’auto, svelato solo dal riflesso negli specchietti.

E ancora: i topi giganti nelle fogne, i cani tosati e rivenduti come leoni da circo. Storie che cambiano luogo ma non forma, si adattano alla città come un profumo dimenticato nei portoni, tornano a bussare quando meno te lo aspetti.

Queste leggende non nascono per caso. Non vengono da lontano, ma da sotto. Dal fondo dei marciapiedi, dai muri scrostati, dalle finestre chiuse con cura. Sono memorie non registrate, racconti che nessuno ha mai scritto ma che si passano di voce in voce, come biglietti piegati e infilati tra le dita.

Spesso sono solo un nome, un gesto, un dettaglio che ritorna: una mano guantata, un uomo che si siede sempre allo stesso tavolo e parla con qualcuno che non c’è, una donna che sorride in metropolitana e poi svanisce alla stazione sbagliata.

E allora ti chiedi: è successo davvero?

Ma forse è la domanda sbagliata.

Perché le leggende urbane non chiedono di essere credute, chiedono solo di essere ascoltate. 

Esistono perché parlano di qualcosa che tutti abbiamo sentito almeno una volta: l’eco di un incontro sfiorato, l’intuizione che ci sia qualcosa oltre quello che vediamo. 

Una connessione invisibile, un passaggio tra chi siamo e chi avremmo potuto essere. Tra chi abbiamo perso, e chi forse non ha mai smesso di cercarci.

Sono storie che resistono al tempo perché non hanno bisogno di prova, solo di presenza.

E come certi amori non vissuti, restano veri proprio perché non sono accaduti del tutto. 



15.5.25

L’anima sulla carta


Si racconta che l'imperatore Huizong della dinastia Song fosse un calligrafo così raffinato da inventare un proprio stile di scrittura, lo Shou Jin Ti, “il carattere dell’oro sottile”. Ogni tratto, ogni curvatura del pennello, ogni respiro dell’inchiostro aveva per lui un significato che andava ben oltre il contenuto delle parole. Era la danza del pensiero, il battito del cuore sulla carta.

La calligrafia è questo.

Non una decorazione, non un vezzo, ma una forma di presenza, di affermazione silenziosa dell’esistenza.

Scrivere a mano non è solo lasciare un messaggio: è lasciare una parte viva di sé.

È come se la mano sapesse fare da tramite tra qualcosa che ci abita e il mondo esterno, tracciando sentieri invisibili tra l'interno e l'altro.

È una delle prime cose che impariamo da bambini. Prima ancora di sapere “cosa” scrivere, ci insegnano a tracciare, come a prendere le misure del mondo. E da allora, ogni persona sviluppa una propria impronta, come una calligrafia dell’anima: lettere spigolose o morbide, slanciate o timide, ordinate o in disordine come certi pensieri di notte.

Nessuna scrittura è neutra.

Non sorprende, allora, che alcune parole scritte a mano sappiano commuovere anche se dicono poco. Che un biglietto trovato in un cassetto possa parlarci più di mille email; sono frammenti di presenza, testimonianze di un’emozione che, pur non essendo più lì, ha lasciato il segno.

Scrivere a mano è un atto di ascolto. Il tempo rallenta, la mente si fa più chiara, la mano diventa guida tra emozioni confuse e ricordi che non vogliono svanire. Ogni parola tracciata è un varco, un passaggio segreto verso una verità che spesso nemmeno conosciamo finché non l’abbiamo scritta.

E non serve essere calligrafi. Anche chi scrive in stampatello maiuscolo o con grafie imprecise lascia una firma esistenziale. Perché la mano non mente. Se è tesa, si vede. Se è serena, si sente. Se è stanca, rallenta. Scrivere a mano è una delle poche cose che, ancora oggi, non può essere davvero simulata.

E forse è proprio in questa fragilità che la scrittura a mano diventa potente: nella sbavatura d’inchiostro, nell’imperfezione del tratto, nell’incertezza di una parola cancellata. È come guardare negli occhi qualcuno che ha abbassato le difese. Nessun font, per quanto elegante, potrà mai restituire la stessa verità.

Nel film Il favoloso mondo di Amélie, c’è una scena in cui la protagonista scrive messaggi segreti a mano, con cura quasi infantile, e li lascia nei luoghi più impensati. Biglietti infilati sotto una tazza, tra le pagine di un libro, in una tasca dimenticata. Sono gesti minimi, ma carichi di poesia. Lei non sa chi li troverà, né quando, né se mai succederà. Eppure continua. Perché la bellezza del messaggio non sta nella certezza che venga letto, ma nel fatto che esista. È la traccia della sua presenza, il suo modo di dire: “io vedo, io sento, io ci sono”.

Ecco cosa rende la calligrafia così unica: l’intimità di un gesto che non ha bisogno di pubblico.

Scrivere a mano è un atto d’amore anche quando nessuno lo saprà.

Allora, ogni volta che scriviamo qualcosa — che sia una poesia, una lettera, una dedica o anche solo una lista della spesa — vale la pena metterci dentro un piccolo gesto d’amore. Perché non possiamo sapere chi la troverà.

Non possiamo sapere quale connessione potrà nascere.

E in fondo, è questo che conta: quel legame misterioso, sottile, talvolta inspiegabile, che ci unisce.

E che a volte… basta un tratto d’inchiostro per rivelare.

1.5.25

Ululati tra gli uomini

C’era una volta un uomo che ululava nei boschi.

E c’era, da un’altra parte del mondo, una giovane artista che urlava in silenzio attraverso il colore.

Non erano leggende. Non erano folli.

Erano Antonio Ligabue e Panteha Abareshi – creature ferite, spiriti vibranti, che hanno trasformato il tormento in arte. Diversi per tempo e spazio, uniti dalla stessa urgenza: comunicare il dolore, renderlo visibile, trasformarlo in gesto.

Ligabue lo incontravi tra le golene del Po, con un gallo sulla spalla e il volto contratto in smorfie da lupo.

Panteha invece la scopri in un breve video, immobile ma viva, con le mani che raccontano attraverso la tela l’esperienza della malattia cronica. Due vite diverse, ma una stessa battaglia: lottare per non essere invisibili.

Antonio, nato nel 1899 a Zurigo, si portava addosso un’esistenza straziata: l’abbandono, l’internamento, l’espulsione come “straniero indesiderato”. Dormiva sotto i ponti, ma dipingeva. Ululava, ma creava. Cercava sé stesso, ritraendosi ora come uomo, ora come belva, in una metamorfosi continua e ossessiva.

Panteha, nata un secolo dopo, vive il proprio corpo come campo di battaglia. La sua arte nasce dal dolore fisico, ma non si ferma lì. È rabbia che si trasforma in linguaggio visivo, vulnerabilità che diventa espressione radicale. Anche lei, come Ligabue, non dipinge per piacere, ma per sopravvivere.

Ligabue era ossessionato da Van Gogh. Panteha dichiara che il suo corpo è il suo materiale. Entrambi trasformano ciò che la società vorrebbe nascondere – la malattia mentale, la disabilità, l’esclusione – in un grido creativo. Leoni con occhi umani, autoritratti ferini, paesaggi sospesi nel tempo da un lato; tessuti cuciti, performance visive, gesti lenti e carichi di significato dall’altro.

Non è estetica, è testimonianza.

L’arte diventa così lingua universale del dolore. Ligabue ululava per comunicare con chi non parlava la sua lingua. Panteha dipinge per chi non può vedere dentro di lei. Entrambi invocano uno sguardo, una presenza, un incontro.

Nelle loro opere c’è una domanda implicita: “Mi vedi davvero?”

Oggi Ligabue ha un museo a Gualtieri e la sua fama è consolidata. Le sue tigri ruggiscono ancora nei musei.

Anche Panteha è stata accolta da gallerie internazionali, ma la sua voce è quella di un’urgenza attuale: quella di chi vive nel margine e chiede ascolto.

In fondo, entrambi ci ricordano che l’arte è connessione primordiale. Che si può gridare anche senza voce. Che un pennello, una tela, un colore possono diventare ululati tra gli uomini.

E chi ha occhi, ascolti.


17.4.25

Un segno, un sogno, un inizio


La matita è uno strumento semplice ma essenziale, utilizzato per scrivere e disegnare. A prima vista può sembrare un oggetto modesto, ma racchiude in sé una storia affascinante, ricca di significato e simbolo tangibile della creatività, della comunicazione e della libertà di espressione.

Composta solitamente da un sottile cilindro di legno che custodisce un’anima di grafite, la matita (o lapis che dir si voglia) è il cuore nero e silenzioso da cui nascono parole, idee e immagini. 

La sua origine affonda nel tempo: prima della scoperta della grafite, venivano usati bastoncini di carbone o di ematite – da cui deriva il termine latino lapis haematites, “pietra di ematite” – per tracciare segni su varie superfici.

La nascita della matita moderna risale al XVI secolo, quando nella regione di Borrowdale, in Inghilterra, fu scoperta la grafite. Inizialmente usata per segnare le pecore, si rivelò perfetta per la scrittura e il disegno. Fu però nel 1795 che Nicolas-Jacques Conté, inventore francese, perfezionò lo strumento mescolando grafite e argilla e racchiudendola in un cilindro di legno: così nacque la matita che conosciamo oggi, diventata strumento universale per artisti, scrittori e pensatori.

Nel corso dei secoli, la matita ha attraversato culture, epoche e mani celebri.Pensiamo agli schizzi preparatori di Leonardo da Vinci o ai progetti architettonici di Frank Lloyd Wright: tutto è iniziato con una semplice linea. John Steinbeck, celebre autore di Furore, era noto per il suo amore per le matite: se ne dice consumasse centinaia mentre scriveva. Ancora oggi, per molti artisti, la matita rappresenta il primo passo verso la creazione, un momento intimo di dialogo con sé stessi.

La matita è anche un ponte tra passato e futuro. Non conosce barriere: può essere usata da chiunque, ovunque. Dai bambini che imparano a scrivere agli architetti che progettano edifici, è lo strumento che accompagna ogni inizio. Una semplice linea tracciata su un foglio può raccontare storie, trasmettere emozioni e perfino cambiare il mondo.

Lo dimostra anche l’attivista pakistana Malala Yousafzai, Premio Nobel per la Pace, che ha spesso evocato il potere della penna e della matita come simboli di educazione e libertà. Rivendicando il diritto delle bambine a studiare, ha dichiarato: “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”. La sua testimonianza ci ricorda che anche gli strumenti più umili possono diventare armi potenti per costruire un futuro migliore.

C’è una bellezza unica nella natura effimera della matita: ciò che scrive può essere cancellato, ma non dimenticato. La sua fragilità ci ricorda che anche le idee più semplici possono lasciare un segno profondo. Non serve essere grandiosi per fare la differenza; basta avere il coraggio di iniziare.

E così, mentre stringiamo tra le dita una matita, possiamo immaginare tutte le connessioni invisibili che essa crea: tra chi scrive e chi legge, tra chi sogna e chi realizza. La matita diventa un filo sottile ma resistente che cuce le distanze tra epoche e persone. Ogni tratto unisce, ogni parola scritta avvicina.

Nella sua essenza umile, troviamo il potere più grande: quello di connetterci, di riconoscerci l’uno nell’altro, attraverso ciò che lasciamo sulla carta. Perché, in fondo, siamo tutti segni—tracce leggere ma preziose—disegnati sul grande foglio dell’umanità. E ogni linea che tracciamo è un invito a continuare insieme il disegno.



3.4.25

Lì dove le vite si sfiorano

C’è un luogo, sospeso tra interno ed esterno, rifugio e soglia, che attraversa la storia dell’abitare e, con essa, quella dello stare al mondo. Il balcone – architettura discreta e al tempo stesso dichiarazione pubblica di esistenza – ha sempre avuto una doppia funzione: proteggere e rivelare.
Nella sua forma più arcaica, il balcone nasce come semplice piattaforma di legno sporgente dalle facciate delle abitazioni, destinata all’osservazione o alla ventilazione degli ambienti interni. Il termine deriva dal latino medievale balco, a sua volta dal germanico balko, cioè trave: richiamo alla sua origine strutturale, prima ancora che simbolica.
Fu però nel Rinascimento italiano che il balcone si fece scena, parte integrante della teatralità dell’architettura urbana. Da elemento funzionale divenne soglia narrativa, luogo di passaggi simbolici: da dentro a fuori, dall’intimità alla comunità, dalla contemplazione all’appello.
Nella letteratura, il balcone è spesso il punto in cui l’invisibile si fa visibile. È il caso del celeberrimo affaccio di Giulietta, in Romeo e Giulietta di Shakespeare, in cui la giovane Capuleti pronuncia le sue parole più intime in uno spazio che è a un tempo privato e pubblico; in realtà, nel testo originale si parla genericamente di una window – una finestra – ma l’iconografia teatrale e cinematografica ha consacrato il balcone come simbolo immortale del dialogo amoroso.
Nella storia politica, il balcone ha avuto spesso un ruolo da protagonista. Basti pensare a Piazza Venezia, a Roma, dove il balcone di Palazzo Venezia divenne tribuna del potere durante il Ventennio fascista: da lì Mussolini arringava la folla, utilizzando lo spazio sospeso come teatro della propaganda. Ma lo stesso elemento architettonico ha ospitato parole di segno opposto: nel 1989, Vaclav Havel si affacciava da un balcone di Praga durante la Rivoluzione di Velluto, per parlare al popolo in nome della libertà.
Anche la musica ha i suoi balconi. Nel Don Giovanni di Mozart, il protagonista osserva – e spia – da un balcone. Nei versi di Les Fleurs du mal, Charles Baudelaire dedica un’intera poesia a "Le Balcon", metafora del ricordo e della nostalgia, luogo d’accesso al sogno e alla memoria:
"Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses,
Ô toi, tous mes plaisirs! ô toi, tous mes devoirs!"
Curioso è il caso di Maria Antonietta, futura regina di Francia, che nel 1770, ancora adolescente, giunta a Versailles per sposare il Delfino, chiese che fosse costruito per lei un balcone fittizio, privo di affaccio reale, rivolto verso un muro cieco all’interno del giardino privato. Non serviva a osservare né a essere vista: era un gesto intimo, quasi infantile, per fingere, anche solo per pochi attimi, di potersi sporgere su un mondo altro.
Quel balcone, simbolicamente inutile, diventa così uno dei più puri e poetici tentativi di evadere attraverso l’immaginazione, di stabilire una connessione con qualcosa di indefinito, ma profondamente desiderato. Era, in fondo, un affaccio sul sogno.
In ogni epoca, il balcone è una soglia – fisica e metaforica – di connessione tra l’io e l’altro, tra l’intimità e il mondo. Luogo della sospensione, del possibile, dell’attesa. 
Spazio da cui si guarda e da cui si è guardati. 
Un piccolo avamposto sul confine tra ciò che si custodisce e ciò che si condivide.
E quando due balconi si fronteggiano, il dialogo silenzioso tra vite parallele diventa possibile. 
A volte basta un gesto, una luce accesa, un corpo che si affaccia, perché si instauri quella forma invisibile e misteriosa di comunicazione tra anime, che le parole, da sole, non riescono mai a spiegare fino in fondo.
Il balcone, quindi, è una soglia silenziosa tra intimità e mondo, tra solitudine e desiderio di contatto.


20.4.23

Are you going to Scarborough Fair ?

Un argomento come quello delle Fiere, nell’attuale contesto dominato da fenomeni come la realtà virtuale ed il metaverso, potrebbe sembrare anacronistico.

In realtà esistono molti punti di contatto tra il passato ed il futuro basati sul medesimo concetto: incontrarsi e scambiare concetti ed idee.

La parola Fiera, trova il suo etimo dal termine latino “Feria” – giorno di festa; essa, infatti, evoca un ambiente festoso.

Nell’Europa del X secolo, allorquando ebbe a svilupparsi pienamente, accadeva di tutto, anche perché il pubblico era dei più vari. 

All’interno della fiera si assisteva a spettacoli e gare e l’affluenza era favorita anche dal fatto che spesso erano organizzate in occasione di feste religiose. Spesso si concedevano esenzioni dai pedaggi relativi al trasporto delle merci, la liberazione degli arrestati per debito e si autorizzava lo svolgimento di giochi altrove proibiti.

Tra il 1200 e il 1300 secolo le fiere più importanti furono quelle di Champagne e delle Fiandre meridionali. Veri e propri eventi internazionali che attiravano mercanti da tutta Europa, in particolare italiani e provenzali.

Nel 1400 e dopo la scoperta del Nuovo Mondo, questi due fulcri fieristici furono soppiantati da Ginevra e Lione. 

Nel 1600, invece, fu Lipsia a ospitare le fiere più importanti, tanto che per contenere i suoi commerci per ben tre volte dovette ampliare la sua cerchia muraria. 

Con l’avvento della Rivoluzione Industriale, la fiera mutò la sua fisionomia, sino a trasformarsi in esposizioni universali: i c.d. EXPO. Dalla sua prima volta, nel 1851 l'Expo è stata lo specchio dei suoi tempi e ha riflettuto da un lato le necessità commerciali e dall'altro i progressi tecnologici e scientifici delle varie epoche.

Simboli dell’EXPO, da installazioni temporanee sono divenuti vere e proprie icone dei paesi che li ospitavano. Basti ricordare la Tour Eiffel (1889), Plaza de Espana a Siviglia (1929), l’Atomium di Bruxelles (1958),  l’Acquario di Genova (1992) e tanti altri come Seattle, Lisbona e Montreal.

Del tutto singolare la vicenda legata all’EUR: un intero quartiere nato per “pubblicizzare” un evento (esso è infatti l’acronimo di Esposizione Universale Roma) da tenersi nel 1942, nei fatti mai avvenuto per i ben noti eventi di quell’anno.

Al contempo, Expo crocevia di idee. 

Nell’ambito di tali esposizioni furono infatti esposte per la prima volte opere dell’ingegno divenute poi di uso comune: il revolver, la macchina per cucire c.d. Singer, l’apparecchio telefonico, il fonografo, i condizionatori. E come non ricordare l’arte ? Guernica di Picasso fu esposta nel 1937 a Parigi, in piena Guerra civile spagnola, realizzato dopo il bombardamento dell'omonima città spagnola da parte degli alleati del generale Franco. Dopo l'Expo, quando la dittatura si instaurò in Spagna, Picasso chiese che il suo dipinto non venisse più esposto fino alla fine del franchismo.

Un sempiterno ed immutevole afflato comunicativo tra le persone che, dunque, ha sfidato il tempo. 

Nel Medioevo si teneva la Fiera di Scarborough, concessa da un editto del 1253, che durava dal giorno dell'Assunzione (15 agosto) al giorno di San Michele (29 settembre) e attirava mercanti da tutta l'Europa. La fiera continuò a tenersi per cinque lunghi secoli ed è tuttora ricordata da una ballata popolare (intitolata appunto Scarborough Fair).

Essa narra la storia di un giovane che invita l'ascoltatore,  in procinto di recarsi presso la Fiera di Scarborough,  a domandare alla sua ex amata -che pure si sarebbe trovata lì- di svolgere per lui una serie di imprese impossibili; solo quando avesse portato a termine il compito ella sarebbe tornata ad essere il suo vero amore. Una delle immagini più famose è quella della donna che si vede costretta a preparare per lui una camicia senza poter usare ago e filo e quindi lavarla in un pozzo privo di acqua.

Spesso la canzone è cantata come un duetto nel quale a sua volta la donna pretende dal suo amante una serie di prove e solo quando il ragazzo avrà finito potrà avere "la sua camicia senza cuciture".

Una metafora sull’amore, che supera ostacoli fisici e fiorisce, o rifiorisce, in un luogo pregno delle buone vibrazioni della gente che ivi si trova e lo affolla.  

Ebbene, proprio lo Scarborough Campus, dell’Università di Hull, è stato il primo ad essere coperto da connettività wireless, tornando così ad acquisire la sua originaria fisionomia, seppur in versione 3.0, di fiera.

Fatta di persone, di idee e di sentimenti.



30.3.23

Raccontalo alle api

Da sempre oggetto di domanda nella biologia, anche quella più antica, il metodo di comunicazione delle api resta ancora tra gli argomenti di ricerca e osservazione che vedono protagonista il mondo animale.

Alla base di questo argomento troviamo gli studi condotti da Karl Von Frisch poi racchiusi nel celebre libro “Il linguaggio delle Api”, premio Nobel nel 1973, proprio per i suoi studi specifici.

Le api hanno sviluppato un sistema di comunicazione ben organizzato che si verifica attraverso varie metodologie: la danza, gli assaggi e l’emissione di sostanze odorose.

La comunicazione delle api affascina da sempre gli studiosi, soprattutto per la sua somiglianza alla comunicazione umana, dato che avviene attraverso simboli che devono essere interpretati (come le parole) e non per segni dal significato univoco (es. un determinato suono che significa, ad esempio, pericolo o via libera). Nel regno animale (uomo compreso), sono in pochi ad attuare questa modalità di linguaggio.

Il livello di cooperazione che si trova all’interno della società delle api è altissimo ed è uno di quei casi in cui possiamo contemplare i miracoli che può produrre una collaborazione molto intensa fra degli individui. 

Il legame che si crea tra le api e il territorio che le ospita è di reciproco scambio e ciò riguarda da vicino anche noi esseri umani. È un dato di fatto che le api aiutano gli esseri umani a sopravvivere. 70 delle 100 specie di colture principali che nutrono il 90% della popolazione umana dipendono dalle api per l'impollinazione.

Senza di loro, queste piante cesserebbero di esistere e con essa tutti gli animali che mangiano quelle piante. Questo può avere un effetto a cascata che si propagherebbe catastroficamente lungo la catena alimentare.

E non è tutto. 

Esiste un legame molto forte che unisce uomini ed api; legame che pare rafforzarsi nell’attraversare gli eventi cruciali che toccano in sorte alle persone. 

Si credeva infatti che se non si raccontava alle api un matrimonio, una nascita o una morte, queste si sarebbero offese e se ne sarebbero andate.

Le ragioni di questo legame tra uomini e api sono ignote. 

Secondo alcuni studiosi, risalirebbero a tradizioni di tipo celtico, poi trasportate nel Nuovo Mondo: qui avrebbero ritrovato, per qualche decennio, nuovo vigore. 

Nella mitologia celtica, le api erano considerate messaggere tra questo mondo e il regno degli spiriti. 

Una storia racconta che quando fu adottato il calendario gregoriano, le api non furono tenute al passo e si rifiutarono di canticchiare il nuovo giorno di Natale.

A conferma di un’origine europea vengono documentati casi in cui le api vengono coinvolte per festeggiare eventi positivi, come i matrimoni. In alcuni casi venivano date alle api anche alcune fette di torta.

In ogni caso, l’ape era considerata un animale di famiglia, una parte della casa, un essere da coinvolgere nelle situazioni più importanti, sia positive che negative.

Tradizione millenaria che non pare essere ancora tramontata

L'annuncio della morte della regina Elisabetta II ha fatto il giro del mondo ed è arrivato anche alle sue api. 

Ad avvertirle della dipartita della sovrana e dell'arrivo di un nuovo “proprietario”, Carlo III, è stato l'apicoltore reale, John Chapple, che si è recato di persona ad informarle: «È tradizione quando qualcuno muore che tu vada agli alveari e dica una piccola preghiera mettendo un nastro nero sull'alveare – racconta Chapple spiegandone il rituale – . Si bussa a ogni alveare e dici: “La padrona è morta, ma non andartene. Il tuo padrone sarà un buon padrone per te».

Il segno di una consapevolezza diversa, forse espressa in modo strambo, del profondo legame esistente tra uomo e natura.