11.12.25

Lo zoo dei liberi

ph.: Walter Spinapolice

Come nota Jan Mohnhaupt nel suo Lo zoo degli altri (Bollati Boringhieri, 2023), gli zoo berlinesi durante la Guerra Fredda – lo Zoologischer Garten a Ovest e il Tierpark a Est – non erano semplici recinti per animali, ma specchi di sistemi politici opposti. L'Ovest denso e vitale, compresso dal Muro in pochi ettari; l'Est sterminato e pianificato, vastità incompiuta dell'utopia socialista. Entrambi prigioni di un pensiero unico che ghettizzava custodi e creature in egual misura.

I direttori Heinz-Georg Klös e Heinrich Dathe competono per panda rari e primati di visitatori, incarnando la rivalità ideologica dei blocchi. Eppure, proprio dove le connessioni mancano, nascono paradossalmente scambi sotterranei. Fughe rocambolesche di animali attraverso i tunnel, diplomazia zoologica che aggira le barriere politiche, fili umani tessuti nell'ombra mentre la Stasi sorveglia persino le gabbie del Tierpark. Le sbarre fisiche riflettevano l'isolamento ideologico, ma non potevano impedire che la vita cercasse passaggi.

I cittadini berlinesi, formalmente "liberi", erano in realtà soli quanto le bestie osservate. Ghettizzati da ideologie monolitiche, intrappolati in una realtà urbana che era essa stessa archetipo della costrizione. Non stupisce che provassero empatia per quelle creature prigioniere. Condividevano, in fondo, la stessa condizione.

Ed è proprio qui, in questa Berlino Ovest che si proclamava libera mentre viveva assediata, che il paradosso si compie. A pochi passi dall'ingresso dello Zoologischer Garten sorge la stazione Bahnhof Zoo. Negli anni Settanta e Ottanta diventa l'epicentro di un altro tipo di recinto, quello della dipendenza. Alle spalle della stazione, ragazzi in fuga dalle famiglie cercano una connessione che la città murata non offre. La trovano nell'eroina, illusione chimica di libertà che li incatena più di qualsiasi ideologia.

Christiane Felscherinow, protagonista del memoir Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1978), incarna questo cortocircuito. I "ragazzi dello zoo" non sono metafora casuale. Sono animali in gabbia in uno zoo urbano, dove le sbarre non sono di ferro ma di bisogno, solitudine, dipendenza. Si prostituiscono per una dose, si bucano per sentirsi vivi, cercano connessione in una città che offre solo muri. Quelli di cemento del confine e quelli invisibili dell'indifferenza.

La loro "libertà" occidentale è un inganno. Possono scegliere la propria distruzione, certo, ma restano prigionieri quanto gli animali dall'altra parte della strada. 

La lezione berlinese è duplice. Le gabbie più resistenti sono quelle invisibili; ideologie, dipendenze, solitudini urbane. E la vera connessione non è vicinanza fisica né condivisione forzata di un recinto. Connessione è riconoscimento reciproco, è la natura umana che fluisce oltre gli steccati e si fonde nell'incontro autentico con l'altro.

Berlino lo ha imparato sulla propria pelle. Il Muro è caduto non per decreto, ma perché migliaia di persone hanno smesso di accettare la separazione. Anche gli zoo, ripensati come bioparchi attraverso un approccio più razionale e vicino alla natura degli animali, non sono più arene di competizione ideologica ma luoghi di collaborazione scientifica internazionale. 

A Berlino, in pochi isolati, si concentra una lezione sulla connessione umana che attraversa zoo, stazioni, muri e dipendenze. Contesti apparentemente slegati che rivelano, a uno sguardo più attento, la stessa verità: siamo tutti alla ricerca di legami autentici, e quando questi mancano, costruiamo gabbie o ci rifugiamo in illusioni.