Nel 2000, a
Copenaghen, ad opera di Ronni Abergel, di suo fratello Dany e degli amici Asma
Mouna e Christoffer Erichsen, vede la luce un’iniziativa dal nome “Human Library”.
L’idea di fondo che la
caratterizza è che un pre-giudizio, ricorrentemente, può influenzare il
concetto su ciò che si manifesta.
Si tratta di una biblioteca del tutto particolare, al cui interno non vi
trovano materiale accoglienza libri cartacei, bensì persone; in carne, ossa e
-soprattutto- anima.
Ognuna di esse, al pari dei
libri tradizionali, reca un titolo che riassume ciò che li caratterizza secondo
un’etichetta: "disoccupato", "rifugiato", "bipolare”, “ragazzo
gay”, “senzatetto”, “nudista”, “donna islamica”.
Il lettore può decidere di consultarne uno, conversandovici per circa
mezz’ora ed avendo cura, preferibilmente, di scegliere quello più lontano dalla
propria sensibilità e dalle proprie costruzioni mentali.
Nel far ciò, deve assumere a parametro il “titolo” del libro che ha
dinanzi a sé.
Quel che ne segue è sorprendente, perlomeno agli occhi dei più.
Il rapporto che si viene a creare tra “lettore” e “libro”, lasciando
fluire liberamente la comunicazione tra i due, ben presto rafforza e sostanzia
l’idea che ciò che unisce è assai più di quello che -a torto- può essere causa
di differenziazioni.
E che sia quanto mai opportuno mettere da parte i pregiudizi e
sperimentare un’esperienza di prima persona, senza cedere ad affrettati
stereotipi condizionanti.
Non a caso, il Consiglio d’Europa, dal 2003 riconosce l’Human Library come
buona prassi, favorendo l’organizzazione di eventi sulla falsariga del tema
della biblioteca, a prescindere dalla fisicità del luogo ad esso deputato.
La preferibile risposta di comunicazione, reciproca comprensione e condivisione che si contrappone alla cieca intolleranza.